Revue de la B.P.C.
THÈMES II/2016
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Mise en
ligne le 12 juillet 2016
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Mind-Body
Problem : dalla critica al monismo ad una possibile soluzione linguistica
Aldo Stella e Giancarlo Ianulardo *
1.
Introduzione
Il dibattito su «monismo e
dualismo» riveste un ruolo fondamentale in quell’ambito di ricerca che viene
definito Filosofia della mente. Ci si
chiede, infatti, quale sia lo statuto ontologico degli stati mentali, ossia se
essi debbano venire pensati come qualcosa di esistente accanto agli stati
cerebrali, e distinti da essi, oppure se esistano solo gli stati cerebrali. In
questo secondo caso, si parla di «monismo» e, in genere, si aggiunge
l’aggettivo «materialistico»: tale concezione, che si è andata facendo largo in
Filosofia della mente, sostiene che
esiste un solo tipo di sostanza, la
materia. In tal modo, si viene a configurare un riduzionismo radicale, definito anche eliminativistico, dal momento che gli stati mentali vengono appunto
eliminati.
Ovviamente, se ci si
colloca in una prospettiva monista, il Mind-Body
Problem trova una sua immediata soluzione: uno dei due termini, e cioè la
mente, viene eliminato, così che viene eo
ipso eliminato il problema del rapporto. Ebbene, il nostro intendimento è
innanzi tutto quello di indicare, in forma molto essenziale, come la
prospettiva monista si sia andata inizialmente configurando e come si sia
andata affermando nella ricerca contemporanea condotta sulla mente/cervello.
A tale prospettiva, e
questo sarà il secondo passaggio, muoveremo delle obiezioni di carattere
essenzialmente teoretico: cercheremo, cioè, di dimostrare come, allorché si
parla di «identità» – per affermare che gli stati mentali «si identificano» con
quelli cerebrali e si risolvono interamente in essi –, si faccia comunque
riferimento al concetto di «relazione». Da un lato, quindi, il monismo viene
affermato in forza della negazione della dualità; dall’altro, la dualità
costituisce il prerequisito del
concetto di «relazione», così che nell’un caso come nell’altro la dualità non
può venire effettivamente eliminata e
il monismo non può venire proposto come soluzione convincente.
Infine, cercheremo di
mostrare come mente e corpo non vadano intesi quali termini di uno statico
costrutto relazionale, ma come il dinamico riferirsi
dell’uno all’altro. Per tale riferirsi, mente e corpo possono venire pensati
come segni o, più precisamente, come linguaggi, così che il problema del loro
rapporto potrebbe risolversi nel problema della traduzione di un linguaggio in
un altro linguaggio.
2. Il
monismo materialistico
Il Mind-Body Problem, come ricorda Moravia,
ha un incipit,
e perfino un padre, abbastanza precisi. Il padre è […] Feigl, il ben noto
esponente del neo-positivismo euro-americano. L’incipit può essere indicato nel 1934 (data del primo articolo di
Feigl sul problema delle relazioni tra fisico e mentale) ovvero, come
preferiscono alcuni, il 1958 (data del saggio sistematico dedicato da Feigl al
medesimo problema)[1].
Al problema indicato si è
cercato di dare, nel corso degli ultimi anni, una soluzione radicale,
consistente nel fatto che è stata rifiutata ogni forma di dualismo, così che è
stata negata la stessa relazione tra mente e corpo. La maggioranza degli
studiosi che si occupano di Filosofia
della mente non ammette, infatti, l’esistenza di una realtà che sia
autonoma e irriducibile a quella fisico-materiale e cioè alla corporeità. Come
afferma Lewis, «noi materialisti dobbiamo accettare la teoria dell’identità
come un dato di fatto – ogni esperienza (mentale) è identica a qualche stato
fisico»[2].
La forma attraverso la
quale si è presentata inizialmente la concezione monista può venire ravvisata,
secondo quanto anticipato dalle parole di Lewis, nelle «teorie identitiste»,
cioè in quelle teorie che identificano stati mentali e stati cerebrali. Uno dei
primi sostenitori della teoria identitista è stato proprio Herbert Feigl. Nella
sua opera più importante, The ‘mental’
and the ‘physical’[3],
Feigl sostiene che la scienza è sostanzialmente una, sia dal punto di vista
metodologico sia per il suo carattere nomotetico. Essa, inoltre, ha valenza
empirico-sensibile, perché si fonda sull’osservazione, e il suo compito è
quello di ridurre i fatti osservati a determinazioni fisiche o suscettibili di
indagine fisica. Anche i significati
e le intenzioni, pertanto, vengono
interpretati in senso fisicalista, così che l’attacco al dualismo è, in questo
caso, di tipo riduzionistico ed eliminativistico.
Feigl
porta avanti, dunque, un programma di identificazione del mentale con il cerebrale
in una prospettiva di monismo
materialistico, ossia con un significativo impegno ontologico. Egli,
insomma, non si accontenta di far valere il punto di vista secondo il quale
l’universo linguistico con cui viene descritto il mentale può venire ridotto a
quello con cui viene descritto il fisco-cerebrale, ma afferma la loro identità
ontologica, cioè il loro coincidere sul piano della realtà effettiva. Le
iniziali perplessità, che egli aveva espresso su un materialismo radicale,
vengono così superate specie nel Postscript,
aggiunto in Appendice alla
ripubblicazione dell’opera indicata.
La
scuola australiana riprende con forza la prospettiva delineata da Feigl, in
particolare con Ullin T. Place, John
J.C. Smart e David M. Armstrong. Place sostiene che è un’ipotesi
scientifica assolutamente ragionevole quella di identificare la coscienza con
un determinato processo cerebrale. Il concetto di identità, inoltre, viene specificato da Place, il quale riflette su
una possibile obiezione dualista, legata al fatto che, nell’affermare
l’identità di mente e cervello, si fa uso di due parole distinte. In tal modo,
sarebbe possibile supporre l’esistenza di due cose distinte anche sul piano
della realtà. In Is consciousness a brain
process?[4], egli sostiene che non è possibile
derivare da una differenza logica una differenza ontologica o, se si
preferisce, da una indipendenza logica una indipendenza ontologica, perché, se
lo si facesse, si cadrebbe in quella che egli definisce una «fallacia
fenomenologica». Quest’ultima consisterebbe, sempre secondo Place,
nell’attribuire ai pensieri e alle sensazioni un ruolo primario rispetto alle
«cose reali» e, in sostanza, altro non sarebbe che una tesi idealistica. La
tesi idealistica, di contro, deve venire capovolta e lo si può fare effettivamente
soltanto sostenendo una tesi materialistica, che finisce per negare uno dei
termini della relazione: la mente.
Smart
non dice soltanto che i processi coscienti sono processi cerebrali; egli
aggiunge che non sono altro che
processi cerebrali. Armstrong, infine, afferma che soltanto una concezione
materialistica, cioè naturalistica e fisicalistica in senso radicale, coglie
effettivamente la realtà oggettiva, dunque è una concezione veramente
realistica. Le cose, infatti, vengono prima delle parole e dei concetti e sono
totalmente indipendenti da essi. La mente, inoltre, deve venire intesa come un
puro oggetto fisico, agente esattamente secondo le stesse leggi delle altre
cose fisiche, come egli afferma in The
nature of mind and other essays[5].
La
teoria identitista viene oggi riproposta, in una forma più o meno aggiornata,
da molti di coloro che intendono ridurre il mentale al cerebrale. Non è compito
del presente studio riportare le molteplici posizioni che oggi vengono
sostenute dai ricercatori. Ci accontentiamo di ricordare che, pur non basandosi
esplicitamente su una teoria identitista, Daniel C. Dennett la fa
implicitamente valere allorché sostiene con forza la necessità di sposare la
tesi del monismo materialistico.
Muovendosi all’interno di quella prospettiva che viene definita funzionalismo computazionale, egli
specifica assai bene le ragioni che, a suo giudizio, non possono non indurre
tanto lo scienziato quanto il filosofo, che si occupano della mente/cervello,
ad abbandonare ogni dualismo, per approdare ad un monismo che riconosca come
reale solo ciò che è fisico e, dunque, materiale.
In effetti, fino ad allora
la tesi proposta dal cognitivismo
classico o simbolico, volta a
proporre l’analogia mente/computer,
era stata considerata una tesi dualista, stante la differenza che essa
manteneva tra l’hardware, rappresentato dal cervello, e la mente, che veniva
assimilata ad un insieme di software, ossia ad un insieme di programmi che
istruirebbero i processi computazionali della mente. Non a caso, si parlava di
«carattere astratto delle computazioni» o di «implementabilità multipla»,
proprio per indicare che lo stesso programma poteva implementare sia un
hardware elettronico sia un hardware biologico: il cervello, appunto.
Dennett, invece, intende
bandire ogni forma di dualismo e, per farlo, si appropria della concezione di
Gilbert Ryle. Nel suo libro The concept
of mind[6],
Ryle indica l’opportunità di prendere una netta distanza da ogni assunzione
della mente in senso sostanzialistico e di considerare il mentale su un piano
esclusivamente linguistico-categoriale. A Ryle si riferisce espressamente
Dennett, quando si adopera a mostrare «perché il dualismo è in disgrazia».
Così scrive Dennett:
L’idea che la mente sia un’entità così
separata dal cervello e composta non da materia ordinaria, ma da qualche altra
sostanza speciale, viene usualmente chiamata dualismo. Oggigiorno esso gode, meritatamente, di una cattiva
reputazione […]. Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò
che egli chiamava il “dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, i
dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e
sostenuta, è il materialismo: esiste
solo un tipo di sostanza, e cioè la materia
– la sostanza fisica di cui si occupano la fisica, la chimica e la fisiologia –
e la mente è in un certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve,
la mente è il cervello[7].
Come
si evince dal passo di Dennett, la concezione sostenuta, e che oggi sembra
prevalere tra coloro che si occupano di mente, è il monismo materialistico:
esiste un’unica sostanza, la materia, e la realtà è materiale, nel senso che
possono venire considerati come effettivamente reali solo gli enti che hanno
consistenza fisica. Il bersaglio è la concezione dualista, che viene fatta
risalire a Cartesio e al suo famoso dualismo di res cogitans e res extensa.
Precisamente sulla
distinzione proposta da Cartesio si incentrano le critiche di Antonio Damasio,
che titola una delle sue opere più famose proprio Descartes’ Error[8].
Tale opera è volta a confutare l’idea che possa darsi una sostanza non
materiale. L’obiezione che viene rivolta ai dualisti è sintetizzata molto bene
da Dennett:
L’obiezione usuale al dualismo era ben
conosciuta dallo stesso Cartesio nel XVII secolo e sembra giusto affermare che
né lui né i successivi dualisti siano mai riusciti a superarla
convincentemente. Benché siano delle entità o sostanze distinte, la mente e il
cervello devono tuttavia interagire […]. Poiché non abbiamo (per ora) la minima
idea delle proprietà della sostanza mentale, non possiamo neanche immaginare
(per ora) come possa essere influenzata dai processi fisici che provengono in
qualche modo dal cervello, quindi ignoriamo per il momento questi segnali
ascendenti e concentriamoci su quelli di ritorno, quelli che vanno dalla mente
al cervello. Questi, ex hypothesi,
non sono fisici […]. Nessuna energia o massa fisica è associata ad essi. Come
riescono, allora, ad influenzare il funzionamento delle cellule cerebrali ad
esse collegate?[9].
La
critica al dualismo si è così tradotta nell’affermazione di una concezione
monista e, poiché solo della materia è parso che si desse indiscutibile
certezza, il monismo è diventato materialistico. Tale concezione configura un
radicale riduzionismo e con esso deve fare i conti chi decida di occuparsi oggi
di Filosofia della mente. Noi non lo
faremo e non prenderemo in esame le singole argomentazioni dei sostenitori di
tale concezione, ma cercheremo di individuarne i tratti fondamentali, onde
muovere ad essi le nostre obiezioni critiche.
Tuttavia, per mostrare
adeguatamente il carattere radicale della concezione indicata, ci permettiamo
di ricordare la posizione assunta da Patricia S. Churchland, la quale ha
illustrato in forma paradigmatica la necessità di approdare ad una
risoluzione-dissoluzione della mente nel cervello. Più precisamente e
recentemente, ella ha affermato che l’io si identifica con il cervello e si
risolve interamente in esso. Una delle sue ultime opere, infatti, si intitola Touching a Nerve. The Self as Brain ed è
stata tradotta in italiano L’io come
cervello. In un passo di tale opera, la Churchland scrive:
Non c’è una cosa separata, io, che esiste in
modo distinto dal mio cervello. Il mio cervello fa ciò che fanno i cervelli e
non c’è un io distinto che legge le
mappe del mio cervello. […] il mio cervello mappa il mio mondo interno e quello
esterno senza che vi sia un io
distinto che legga quelle mappe[10].
3. Alcune
obiezioni che potrebbero venire mosse al monismo materialistico
Per svolgere una critica
del monismo materialistico, prendiamo avvio dal concetto di «identità», dal
momento che le teorie identitiste proprio a tale concetto fanno riferimento.
Riteniamo che possa essere utile risalire fino ad Aristotele per attingere al V
libro della Metafisica la definizione
che lo Stagirita fornisce del concetto di «identità»:
L’identità è una unità d’essere o di una
molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata però come una
molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se
stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose[11].
L’identità
esprime, quindi, o che una cosa è identica a un’altra (A id. B, A è B) o che una cosa è identica a se stessa (A id. A, A è A). In entrambi i casi, deve
venire messo in evidenza questo punto: l’identità si costituisce come identità tra due termini (di due termini). Ciò comporta che l’identità si fonda sulla relazione,
così che la differenza (non-A) non
può non venire richiesta. Il nodo teoretico è che la differenza viene bensì richiesta, ma proprio per venire negata. Solo in virtù di questa
negazione risulta la medesimezza sostanziale
dei due termini che la forma, invece,
presenta come distinti.
Per
affermare lo idem, o l’unità, si deve
insomma comunque presupporre la
differenza, così che, anche quando si afferma l’identità della cosa con se
stessa, si è costretti a sdoppiarla, a reduplicarla, ossia a introdurre una
relazione nel suo essere, onde inscrivere la molteplicità all’interno dell’unità.
Per questa ragione Aristotele afferma che una
cosa viene considerata come due cose.
I
sostenitori del monismo materialistico affermano che la realtà di mente e corpo
è una soltanto e si risolve, dal punto di vista ontologico, nella materia che connota
il corpo o, se si preferisce, nel cervello. A loro giudizio, infatti, la
differenza apparterrebbe solo all’ambito fenomenologico. Ciò che abbiamo voluto
dimostrare, invece, è che senza la differenza non si pone l’identità, così che
esse non possono non collocarsi al medesimo
livello: si può affermare che mente e corpo sono un medesimo (idem) solo negando la loro differenza,
che viene di conseguenza postulata.
Facciamo
notare, ma in forma solo cursoria, che anche nell’ambito della logica formale,
tanto nel calcolo funzionale di primo
ordine e, in particolare, nel calcolo funzionale di primo ordine con uguaglianza, quanto nei calcoli funzionali di secondo ordine
nonché nell’algebra delle relazioni,
l’identità viene intesa come uguaglianza,
la quale è una costante funzionale diadica e viene espressa nella forma di una relazione: xIy.
Ammettiamo, non di meno, che si intenda
ridurre il mentale al cerebrale prescindendo dalle teorie identitiste e dal
concetto di identità che esse postulano. Ebbene, anche in questo caso non si
potrà evitare di rilevare che, se si intende appunto ridurre il mentale al somatico (cerebrale), per procedere alla
riduzione si deve comunque muovere dall’assunto che si diano due realtà
diverse. Se non fossero due realtà e non fossero diverse, infatti, non si
parlerebbe di riduzione dell’una
all’altra. Ebbene, ciò che intendiamo sottolineare è che in tal modo l’esito della riduzione finisce proprio
per negare il presupposto che pone in
essere la stessa riduzione.
Per evitare la contraddizione,
allora, si dovrebbe ammettere che il livello in cui si pone la differenza è
distinto dal livello in cui si pone l’identità: la differenza di mente e corpo
è fenomenologica; ontologicamente, invece, si pone solo il
corpo (la materia), così che la riduzione altro non sarebbe che l’attingimento
dell’autentica realtà. Se non che, se così fosse, quale sarebbe, allora, la ragione del presentarsi di qualcosa che
ontologicamente non è? Se il mentale non ha consistenza ontologica, per quale ragione esso si presenta come se fosse?
Ammettiamo
che si presentino fenomeni che noi, erroneamente, definiamo «mentali». Se è
solo un nostro errore linguistico, perché mantenere tale parola? Evidentemente,
un qualche significato che la
specifica dovrà pur esserci; un significato, inoltre, che non può non essere
diverso da quello indicato dalla parola «somatico». Da cosa nascerebbe, ci si
chiede, la necessità di tenere distinti due concetti, usando due parole diverse
per indicarli, se solo uno di essi avesse un corrispettivo nella realtà?
Inoltre, se si fa valere la
differenza tra ambito fenomenologico
e ambito ontologico, non si ammette forse una forma di dualismo? Se «mente»
fosse un concetto valido solo da un punto di vista intensionale, ma non dal punto di vista estensionale, giacché le menti non sono enti reali e quindi non
possono venire considerate autentici esemplari della categoria, allora si
tratterebbe di un concetto empirico del tutto particolare, che – per essere
ancora più chiari – si traduce in una parola, mente, che non denota alcunché.
Prescindiamo,
comunque, dai rilievi critici mossi e ammettiamo che ciò che oggi viene
espresso in «termini mentalistici» un giorno, quando la scienza sarà più
matura, potrà venire espresso in «termini fisicalistici». Ammettiamo, insomma,
che si dia effettivamente un’unica sostanza. In questo caso non si potrebbe
eludere la seguente domanda: come è possibile determinare tale sostanza, se
essa è effettivamente unica (da cui monos)?
Non si può dimenticare, infatti, che de-terminare significa de-limitare, ossia
circoscrivere mediante un limite.
Ebbene, il punto è che il limite ripropone non altro che il concetto di
relazione, stante le «due facce» che lo caratterizzano. Si può determinare,
dunque, qualcosa come A, solo perché lo si distingue da non-A, con questa
conseguenza: è possibile porre una qualche identità determinata solo in ragione
della relazione alla sua differenza.
Nel
caso del monismo materialistico,
pertanto, ci si trova nella seguente situazione: se si intende veramente
indicare una realtà unica, allora tale realtà non deve venire determinata. Una
realtà unica non può non essere assoluta,
cioè ab-soluta, sciolta da vincoli,
da relazioni, e dunque non può non essere indeterminabile.
Nel volerla determinare «in senso materiale», non ci si avvede che la si
vincola necessariamente alla sua
differenza: la materia postula, per così dire, la «non-materia», ossia qualcosa
che non sia materiale, proprio per differenziarsene e per identificarsi come
materia.
Il
tema della differenza – che risulta
intrinsecamente vincolato al tema dell’identità
– impone, infine, un’ulteriore considerazione. Ci si chiede: come è possibile
giustificare la differenza in un
contesto di radicale monismo? Anche se i sostenitori della concezione monista
non fanno alcuna difficoltà ad ammettere la molteplicità degli enti, è da
domandarsi, tuttavia, come essi possano legittimare tale molteplicità da un
punto di vista teoretico-concettuale.
In una concezione
autenticamente monista, infatti, non è ammissibile una differenza di sostanza,
giacché il monismo afferma che la sostanza non può non essere unica. Deve
trattarsi, dunque, di una differenza di
forma, come accade, ad esempio, agli
esseri umani, i quali sono fatti tutti della stessa materia, ma sono molteplici
in virtù della forma che li specifica. Ma, allora, l’approdo è il seguente: per
legittimare la differenza, il monista deve ammettere almeno un dualismo, quello
che distingue la forma dalla sostanza.
L’esito
delle argomentazioni proposte è che una qualche forma di dualismo deve venire comunque richiesta, se si intende legittimare la concezione monista. Se,
di contro, ci si appella a una presunta evidenza o a un’intuizione che non ha
bisogno di legittimazione, perché si fonda sul senso comune, allora il discorso cambia: si accetta il monismo, ma
senza fornire un’argomentazione autentica
che lo giustifichi.
4. Il
dualismo e il concetto di relazione
Il punto è, a nostro
giudizio, intendere adeguatamente il concetto di dualismo. Per tale ragione, è opportuno riflettere sul concetto di relazione, che sta a fondamento del
concetto di dualismo.
Quando
si parla di relazione, in genere si intende un costrutto formato da due termini
estremi (A e B) e un nesso (r) che li
vincola. Precisamente per questa ragione si è soliti parlare di costrutto mono-diadico e tale costrutto
viene espresso nella formula «r (A,
B)».
Il
costrutto relazionale svolge indubbiamente una funzione insostituibile, giacché
solo in forza di esso è possibile tessere la trama dell’esperienza che è fatta
di nessi che si dispongono tra le determinazioni. Non di meno, tale costrutto
si è rivelato problematico. La sua problematicità emerge con chiarezza se si
considera che, in quanto la relazione viene pensata come intercorrente tra A e B, essa non può evitare di
proporsi come un nuovo termine: il termine medio.
Quest’ultimo, da un certo punto di vista, unisce A e B, ma, da un altro punto
di vista, divide A da B. Se il quid
medium viene indicato con la lettera C, allora non si può evitare di
ammettere che si vengono a configurare due nuove relazioni, e cioè quella che
intercorre tra A e C e quella che intercorre tra C e B. Allo stesso modo, però,
dalle due nuove relazioni originano due nuovi medi, e così via all’infinito.
Proprio
l’inconcludenza di un regressus in
indefinitum viene evidenziata da Platone nel Parmenide quando, per bocca dell’Eleate, viene presa in
considerazione la relazione che sussiste tra i modelli ideali e le cose[12].
Aristotele, nella Metafisica, si
riferisce all’argomento del terzo uomo
precisamente per sottolineare il
carattere aporetico del concetto
platonico di «partecipazione»[13].
A nostro giudizio, ed è proprio su questo aspetto che intendiamo richiamare
l’attenzione del lettore, il carattere aporetico del concetto di partecipazione è legato al carattere
aporetico del concetto di relazione.
Più
radicalmente, a nostro giudizio la relazione configura non tanto un’aporia, quanto un’antilogia, cioè la conciliazione
di inconciliabili. In effetti, la
relazione postula l’identità dei relati (A e B) e la postula secondo la forma
in cui l’identità viene ordinariamente concepita: tanto A quanto B risultano
ciascuno identico con se stesso e per questo l’uno è differente dall’altro. Che
è come dire: A e B sono due identità,
cioè due realtà che esibiscono una propria autonomia e autosufficienza, tant’è
che possono venire assunte l’una a prescindere dall’altra. Se così non fosse,
se ciascuna identità non potesse venire considerata per la sua autonomia, non
potrebbe nemmeno venire codificata e non si potrebbe dire A né si potrebbe dire
B.
Se non che, due aspetti
devono venire messi in luce, perché colpiscono alle fondamenta il concetto
ordinario di relazione. Il primo lo abbiamo già indicato: ogni identità
determinata si pone solo in quanto si relaziona alla differenza, così che
quest’ultima non è estrinseca all’identità. Se, insomma, si afferma che non-A è
essenziale al costituirsi di A (e viceversa), allora ciò non può non
significare che la differenza viene riconosciuta come intrinseca e costitutiva dell’identità.
La conclusione cui mette
capo il primo aspetto è, pertanto, la seguente: la relazione non va pensata
come intercorrente tra A e B, ma come
immanente ad A e a B. Se, dunque, si
perviene alla consapevolezza che A e B sono due identità che si pongono solo in forza del loro inviare l’una
all’altra, allora tale invio non può venire pensato come successivo alla costituzione dell’essere di A e di B, ma come
coincidente con l’essere stesso di entrambi: A è relazione a B, e viceversa, perché A senza B non può stare, così
che B entra nella costituzione intrinseca di A e la relazione risulta non un
costrutto, ma l’atto del reciproco
riferirsi dei termini.
Quanto detto viene a
configurare il secondo aspetto: se la relazione viene colta nel suo essere
autentico, allora emerge che i termini che la costituiscono non possono venire ipostatizzati, ma debbono venire intesi
come segni, dal momento che si
costituiscono solo nell’inviare l’uno all’altro. Ovviamente, ciò ha una estrema
rilevanza per intendere adeguatamente la concezione dualista.
Mente e cervello non
possono venire pensati come due res e
ciò per la ragione che non sono dotati di una propria identità, indipendente ed
autonoma. Affermare che si tratta di una autonomia e di una indipendenza solo
relative ci sembra sia ancora insufficiente, se si fa valere una considerazione
autenticamente teoretico-concettuale. Mente e cervello, secondo
l’interpretazione che andiamo proponendo, vengono bensì distinti, ma non si può
dimenticare che tale distinzione appartiene ad una considerazione solo formale, giacché – vogliamo ribadirlo –
a rigore sono l’una l’intrinseco riferirsi all’altro (e viceversa).
Così
come forma e materia (o, se si preferisce, forma e contenuto) sono termini
correlativi, dunque sono co-essenziali,
altrettanto lo sono mente e cervello (corpo). Risulta quindi preclusa la
possibilità di assolutizzare il cervello (la materia), perché è solo in forza
della coscienza (la mente o la forma) che esso viene riconosciuto come cervello
e viene codificato come tale. Né, del resto, può venire assolutizzata la
coscienza (forma), perché essa si pone solo in quanto si riferisce a
determinati contenuti: coscienza di nulla si risolve (dissolve) in
coscienza-nulla.
Precisamente
per le ragioni addotte, non è ipostatizzabile la relazione di mente e cervello:
essa si fonda sull’assunto che si diano due
termini, laddove in effetti la loro realtà è il loro riferirsi. Mente e cervello non sono due res, ma due segni che
si riferiscono l’un l’altro e sono soltanto in tale riferimento, così che – a rigore – il loro fondamento è l’unità.
Con questa conclusione: a
livello teoretico-concettuale, mente e corpo si risolvono nell’unità del loro
riferirsi reciproco, così che la loro verità autentica è l’atto che li fonda e
li costituisce. Di contro, se ci si dispone all’interno della considerazione
formale, che coincide con l’universo del discorso, non si può evitare di
determinare anche la condizione determinante, che pure si richiede come
incondizionata in quanto emergente oltre i condizionati (mente e corpo), di cui
deve costituire il fondamento. L’esito è che tale condizione, ancorché
unitaria, viene descritta nei termini di una sintesi e cioè come relazione
mente-corpo.
Non di meno, la distinzione
del fondamento unitario in due componenti – imposta dalla considerazione
formale – non può non accompagnarsi alla consapevolezza che i termini (mente e
corpo, appunto) non possono venire pensati, nemmeno formalmente, come statici, cioè come due ipostasi, ma
debbono venire colti nel loro essere intrinsecamente
dinamici. La loro dinamicità, che è
poi la loro vitalità, costituisce
infatti la traduzione più efficace, a livello formale, della
loro sostanziale unità, giacché intendere la relazione come atto, e non come medio tra estremi, impone che ciascun termine venga inteso nel suo
riferirsi all’altro termine. Per questa ragione abbiamo detto che mente e corpo
si rivelano dei segni.
V’è, inoltre, un aspetto
ulteriore che domanda di venire considerato. Come abbiamo visto, ogni identità
determinata è tale in virtù di un limite, che pone l’identico perché lo
riferisce al diverso. Ciò comporta che la differenza debba venire pensata,
almeno da un punto di vista teoretico-concettuale, come intrinseca all’identità
e costitutiva di essa. La traduzione
formale del valore intrinseco della differenza trova espressione solo in
una identità che non venga più intesa come monolitica,
oltre che inerte, ma come articolata e strutturata al suo interno.
La conseguenza di quanto
detto è, così, duplice: mente e corpo non soltanto sono segni, ma più precisamente sono segni che si articolano e si
strutturano ciascuno al proprio interno, in modo tale che risulta più corretto
parlare di mente e corpo come di due sistemi
di segni o, se si preferisce, di due universi
linguistici.
Per sintetizzare e
ricapitolare: se mente e corpo vengono ipostatizzati, allora si perde la loro
vitalità. Se, invece, si fa valere la loro dinamicità, allora il corpo
(cervello) viene colto come espressione di
una realtà che ad esso non si riduce, ma che mediante esso si manifesta, e la
mente come il luogo delle rappresentazioni, dei significati, delle ragioni e
dei valori che nella manifestazione somatica trovano la loro espressione. In
tal modo, lo scambio tra manifestazione
somatica e ciò che essa manifesta risulta continuo e inarrestabile, perché
poggia sul rinviarsi reciproco di mente e corpo: tale atto del rinviarsi
reciproco coincide con il loro stesso essere.
5. Mente e
corpo come universi linguistici
Il discorso svolto ha
importantissime ricadute sul Mind-Body
Problem. Se mente e corpo sono metafore
– nel senso del meta-pherein, ossia
del portare al di là – e metafore
dotate di una specifica articolazione intrinseca, così che possono venire
intesi, più rigorosamente, come due universi
linguistici, che prendono forma grazie ad una precisa notazione simbolica che li connota e li specifica, allora è
possibile pensare alla relazione che intercorre tra di essi come una relazione interlinguistica: essi tendono
a tradursi di continuo l’uno
nell’altra.
Secondo
il punto di vista che intendiamo esprimere, pertanto, la relazione di mente e
corpo non necessariamente va intesa come relazione
causale, secondo la concezione naturalistica e il programma di
naturalizzazione della mente[14],
il quale propone un monismo metodologico in ragione di un presunto monismo
ontologico. Diventa possibile intendere tale rapporto anche come relazione interlinguistica, giacché il
linguaggio del corpo, fatto di processi biologici nonché di sostanze chimiche e
impulsi elettrici, trova continua traduzione
nel linguaggio della mente, fatto di processi cognitivi, che si basano su
rappresentazioni e regole, nonché sul pensiero riflessivo e critico, che
consente l’emergere della coscienza[15]. E, ovviamente,
vale anche la reciproca.
Per
argomentare in favore della nostra ipotesi ermeneutica, e cercare di renderla
più chiara, ci sembra che possa essere utile fare una premessa. Si consideri il
rapporto ambiente-organismo. Ebbene, tale rapporto può venire utilizzato per
comprendere meglio lo stesso rapporto mente-corpo, giacché si potrebbe dire
che, in un certo senso, il primo rapporto precede il secondo.
Intendere il rapporto che
il soggetto intrattiene con l’ambiente consente, infatti, di comprendere il processo comunicativo che si instaura
sul versante esterno del soggetto e ciò può costituire un ottimo punto di
partenza per spiegare ciò che avviene sul versante interno del soggetto
stesso. Secondo la nostra
interpretazione – questo è il punto che ora vogliamo sottolineare con forza –
anche il rapporto con l’ambiente deve venire inteso come un rapporto tra due universi linguistici, stante il
fatto che sia l’ambiente sia l’organismo si pongono solo nel loro riferirsi
reciproco.
Tale
reciproco e mutuo processo comunicativo trova iniziale espressione in una forma di grande interesse: il processo
della trasduzione[16].
Mediante quest’ultima, il linguaggio di quelle che vengono definite «forme
esterne», e cioè delle informazioni veicolate dagli stimoli, si traduce di
continuo nel linguaggio delle «forme interne», che sono le forme che la
componente fisica e la componente cognitiva dello stimolo evocano
nell’organismo e nel suo sistema cognitivo.
Per chiarire meglio la
nostra interpretazione, facciamo riferimento al modello di mente che emerge dal
modello cognitivo classico o simbolico[17].
Tale modello, lo abbiamo anticipato, trova nel concetto di «informazione» uno
dei fondamenti teorici più rilevanti e significativi. Ricordiamo che
l’interpretazione cognitivista del famoso esperimento di Pavlov[18]
pone al centro non tanto lo stimolo fisico, rappresentato dal suono della
campanella, quanto piuttosto l’informazione in esso contenuta. È precisamente
l’informazione che acquista per l’animale il valore di un indice, di un segno, che attesta l’imminente sopraggiungere
del cibo desiderato. A fronte della fisicità dello stimolo, viene insomma
valorizzata l’informazione, che ha valore cognitivo,
in modo tale che la mente viene equiparata a un complesso e potente elaboratore
di informazioni.
Ebbene,
il concetto di informazione è intrinsecamente vincolato a quello di trasduzione, giacché l’informazione deve
innanzi tutto venire recepita dagli organi sensoriali e tradotta in segnali
comprensibili per il sistema di elaborazione (trasduzione sensoriale) in modo da essere disponibile per i
processi percettivi che interpreteranno l’informazione in base all’esperienza e
alla situazione in cui si verifica la percezione. La trasduzione, dunque, non è altro che una traduzione e, cioè, la trasformazione
di una forma, che è propria di
un’informazione in ingresso, in un’altra forma,
che diventa una forma interna al sistema: una rappresentazione.
Di
una traduzione di un linguaggio in un altro linguaggio, pertanto, si tratta e
tale traduzione consente di intendere quella continuità tra esterno e interno,
tra mondo esterno e soggetto, che giustifica il formarsi nel soggetto di rappresentazioni in grado di esprimere
l’esterno mediante forme interne. È precisamente su tali forme interne, del
resto, che si applicano le successive procedure di elaborazione, che avvengono
in conformità a precise regole, onde
configurare i cosiddetti processi
cognitivi[19],
i quali si concluderanno con la configurazione del campo percettivo.
Per
precisare ulteriormente la continuità che sussiste tra l’ambiente e
l’organismo, si potrebbe aggiungere che lo stimolo evoca nell’organismo un
duplice ordine di processi. La sua componente fisica, che nel caso dello
stimolo ottico è una radiazione elettromagnetica e nel caso dello stimolo
acustico un’onda sonora, evoca processi neurofisiologici (essenzialmente
biologici); di contro, la sua componente cognitiva, o informazionale, evoca
processi cognitivi. In tal modo, l’ambiente prende
forma per il soggetto che percepisce.
Ci sembra opportuno
sottolineare, tuttavia, che nei primi livelli dell’elaborazione sensoriale il
riferimento al significato – cioè alle cose
che costituiscono ciò di cui il soggetto fa esperienza cosciente – permane implicito (tacito), cioè rimane inconscio, così che il linguaggio degli stimoli può venire considerato soltanto per il suo
aspetto sintattico. Che è come dire: la sintassi
che regola il linguaggio degli stimoli decreta i rapporti di combinazione delle
forme in ingresso, secondo una modalità che può venire assimilata a quella che
è propria di ogni altro linguaggio.
Il
linguaggio degli stimoli diventa,
insomma, espressione dell’ambiente e
ciò avviene mediante configurazioni formali e regole di combinazione di tali
configurazioni. Queste ultime costituiscono il primo passo di quel lungo
processo che si concluderà con il presentarsi di forme-oggettuali, le quali, ancorché dotate esse stesse di
proprietà sintattiche, attestano altresì valore
semantico esplicito, per la ragione che valgono come dati di cui il
soggetto fa esperienza.
6.
Linguaggio biologico e linguaggio cognitivo
Il punto che a noi sembra
estremamente rilevante può così venire riassunto: i due ordini di processi di
cui abbiamo parlato esprimono, in buona sostanza, il linguaggio delle forme biologiche e il linguaggio delle forme cognitive, i quali costituiscono
la traduzione, sul versante interno
(dell’organismo e del sistema cognitivo), del linguaggio degli stimoli, cioè
del linguaggio esterno.
Affinché i due linguaggi
interni emergano nelle loro caratteristiche peculiari ed essenziali, ricordiamo
che tra le forme biologiche debbono innanzi tutto venire annoverate le
configurazioni neurali che si attivano in base allo stimolo. I patterns di
attivazione neurale, del resto, costituiscono essi stessi delle forme, ossia
sono modalità in cui la materia trova
espressione. Non sono, tuttavia, le uniche, giacché la reazione
dell’organismo è costituita anche da segnali
umorali, che sono messaggi chimici che vengono trasmessi attraverso il
flusso ematico, e da messaggi
elettrochimici trasmessi attraverso le vie nervose.
La
risposta biologica allo stimolo è dunque multiforme:
si esprime, cioè, in una molteplicità di linguaggi, ciascuno dei quali si
costituisce di segni, fra loro vincolati in conformità a regole, le quali
impongono processi, o funzioni, che
sono automatici e che, pertanto, possono venire espressi mediante computazioni.
Come
detto, oltre che attivare processi neuro-fisiologici, lo stimolo, mediante le
informazioni che veicola, attiva processi
cognitivi. Nel caso della percezione, l’elaborazione bottom-up si dispone su tre livelli. Il primo livello configura la
cosiddetta codifica neurosensoriale,
che esprime un’elaborazione pre-attentiva e modulare: si tratta, dunque, di processi di elaborazione
automatici, quindi inconsci, che vengono compiuti da unità elaborative
specializzate e incapsulate, i moduli cognitivi. L’insieme di queste codifiche
mette capo al configurarsi di rappresentazioni
che, anche in questo caso, traducono
in un linguaggio interno le forme esterne, cioè le forme in ingresso.
Che
è come dire: l'informazione in ingresso viene adeguatamente marcata, cioè
codificata, e l'operazione di codifica è posta in essere dal sistema
neurosensoriale, attraverso meccanismi che si esprimono in forma analitica, atta a scannerizzare lo
stimolo e ad assegnare un codice alle
sue componenti (forme) elementari.
Successivamente,
e cioè dopo che lo stimolo è stato scomposto, il processo percettivo tende a
riunificare gli elementi ottenuti con l’analisi e v'è una prevalenza
dell'aspetto sintetico: in tale
secondo livello si mettono in relazione le primitive caratteristiche elementari
dello stimolo e, soprattutto, si ha l'elaborazione di rappresentazioni strutturali,
pilotate dalle proprietà (forme) degli stimoli stessi.
Le
forme, che si configurano a questo livello, sono ancora definite da proprietà
principalmente strutturali e non
tanto da proprietà semantiche, e tuttavia preparano il passaggio da una considerazione
esclusivamente sintattica delle rappresentazioni a una considerazione che
diventerà esplicitamente semantica, la quale definisce il terzo livello, cioè
quello percettivo vero e proprio.
Se
le forme sintattiche esprimono soltanto relazioni tra segni, lentamente ma
progressivamente esse vengono poi riferite anche a significati, cioè a oggetti.
L'elaborazione più avanzata, inoltre, non manifesta più un’impenetrabilità
cognitiva, giacché essa viene sempre di più influenzata dal sistema generale in
cui si colloca.
La
descrizione della traduzione delle forme esterne in forme interne può
compiersi, insomma, sia collocandosi sul versante del linguaggio biologico
(neurofisiologico) sia sul versante del linguaggio mentale.
7. .
Linguaggi formali e lingua
Ribadiamo un aspetto, per
la sua rilevanza in ordine al discorso che andiamo svolgendo: l’elaborazione
cognitiva, e questa è precisamente la specificità del suo linguaggio, prepara il passaggio da forme, che inizialmente sono
soprattutto sintattiche, a forme che acquistano sempre più valenza semantica,
proprio perché vengono riferite a dati d'esperienza, a significati che
acquistano valore per il soggetto.
In
virtù dell’uso del concetto di linguaggio,
le differenze sussistenti tra processo biologico e processo cognitivo possono
bensì venire mantenute, ma solo riconducendole alla loro comune matrice. Non è
affatto un caso che si parli di processi
o di funzioni sia riferendosi a stati
biologici sia a stati mentali. L’uso della medesima parola si giustifica
considerando il fatto che anche il processo biologico è una sequenza di stati,
i quali si pongono in modo tale che ciascuno risulta funzione dello stato precedente e si pone in funzione del successivo: ‘processo’ e ‘funzione’ si rivelano
così espressioni che indicano un medesimo significato. Ciò significa che, se i
processi biologici possono venire considerati per la loro valenza funzionale, e dunque – in senso lato –
cognitiva, processi computazionali, altrettanto i processi cognitivi, per il
loro esercitarsi su rappresentazioni che mantengono una valenza fisica, sono – in senso lato – fisici.
Le
sequenze biologiche sono ben formate solo quando valgono come processi
biologici normali e cioè quando si producono correttamente in base alle regole
di formazione, che sono codificate nel nostro DNA. Le sequenze ben formate
tendono poi a tradursi in altri processi biologici e, come per ogni linguaggio,
si danno tanto regole di formazione
di sequenze (processi biologici) quanto regole di trasformazione, per cui si organizzeranno nuove sequenze (nuovi
processi) a muovere da sequenze date. Altrettanto, caratteristica fondamentale
di ogni processo cognitivo è lo svolgersi su forme simboliche (sequenze o
stringhe di simboli), che si caratterizzano per la loro dimensione fisica. È
proprio tale dimensione che consente di discriminare l’una forma dall’altra e
che permette la loro elaborazione in conformità a regole, che ne prescrivono la corretta trasformazione. Nell’un caso come nell’altro, dunque, si ha a che
fare con linguaggi, dal momento che
sono dotati di segni e di regole per la loro manipolazione.
Indubbiamente,
la produttività che è propria di una lingua
trova espressione solo parziale nel linguaggio dei processi biologico-materiali
o nel linguaggio dei processi cognitivo-formali. Inoltre, è da rilevare che la
relazione, che dovrebbe sussistere tra il simbolo e l'informazione, costituisce
un costrutto teorico, dal momento che
si configura solo come un'ipotesi di lavoro. Essa, infatti, poggia sull'assunto
che, manipolando simboli, il processo cognitivo manipoli informazioni. Se non
che, la manipolazione dei simboli può venire descritta e simulata soltanto
nella sua dimensione sintattica e computazionale, così che l'aspetto
referenziale (semantico) non può appartenere a questo livello di costituzione
del processo.
Si
può solo dire che determinate informazioni attivano determinati processi, che
corrispondono a quelle informazioni. Ma non si può certo indicare il senso in forza del quale le forme
cognitive, manipolate nel processo di elaborazione, valgono come segni che si riferiscono a dati di esperienza. Affinché le forme
valgano come segni che si riferiscono a dati appartenenti al mondo
dell’esperienza, il linguaggio biologico e il linguaggio cognitivo devono tradursi
in un linguaggio ulteriore: un linguaggio
simbolico di secondo livello, nel quale le rappresentazioni esibiscono una
natura più astratta e complessa, in virtù della quale assumono un’indubbia valenza semantica.
Quanto
detto ci consente di affermare che il passaggio dal biologico al mentale – e
viceversa – risulta in tutta la sua evidenza allorché il linguaggio meccanico
dei processi biologici e dei processi cognitivi si traduce nella lingua
ordinaria, che è espressione non soltanto di forme automatiche, ma anche
del pensiero riflessivo e critico,
condizione dell’emergere della coscienza.
Il passaggio a un
linguaggio dotato di proprietà anche semantiche, dunque, può venire inteso solo
in virtù di un processo esplicito di codifica e di ricodifica (cioè di
categorizzazione o top-down) nonché di interpretazione: tali processi
vengono messi in atto solo da un soggetto cosciente. L’uso di una lingua, questo è il punto, attesta la
presenza di una mente, intesa nel suo senso più pieno e autentico, giacché si
tratta di una mente che non è riducibile a una funzione semplicemente automatica. Altrimenti detto: se il processo
di traduzione-trasformazione di linguaggi si caratterizza per una sostanziale
continuità, il presentarsi di una lingua, cioè di un linguaggio dotato di una
valenza semantica esplicita e dunque non solo computazionale, implica l’emergere della funzione interpretante, la quale interpreta il significato delle
forme fornendo loro anche un senso. E
ciò determina una soluzione di continuità
estremamente significativa, perché è espressione
dell’emergere della coscienza nonché
dell’autocoscienza.
Più
radicalmente, si potrebbe affermare che è possibile parlare di processi
automatici di elaborazione dell’informazione, o di linguaggi formali, solo in
virtù di una funzione interpretante,
la quale implica innegabilmente la funzione
cosciente[20]. La
coscienza, insomma, non può non emergere oltre i processi automatici e i
linguaggi formalizzati, perché solo emergendo oltre di essi può riconoscerli.
Soltanto la coscienza, quindi, è in grado di porre una codifica e una
decodifica non automatiche e solo essa fa valere la distinzione tra linguaggio
e lingua, tra codifica implicita ed esplicita, tra algoritmi che si sviluppano
automaticamente in conformità a regole e decisione soggettiva.
Si
potrebbe dire che la lingua, per il
suo valere come linguaggio di secondo livello, cioè come un linguaggio con cui
ci si può riferire ad ogni altro linguaggio, costituisce l’espressione più
diretta e significativa della proprietà
riflessiva del pensiero e della coscienza. La lingua, infatti, configura
quel linguaggio in virtù del quale non soltanto è possibile dire di ogni altro
linguaggio, ma è anche possibile al soggetto riferirsi a se stesso nonché al
proprio dire. Per questa ragione, la lingua può venire considerata
l’espressione più diretta e compiuta della mente.
Conclusioni
Avere inteso la relazione
non più come costrutto mono-diadico, ma come l’atto del riferirsi dei termini,
ha consentito di offrire una soluzione linguistica
al Mind-Body Problem. Mente e corpo,
colti come segni dotati di una loro
intrinseca strutturazione, possono venire pensati come universi linguistici, i quali da un lato traducono in forme interne
le forme esterne provenienti dall’ambiente, dall’altro traducono di continuo le
forme interne appartenenti al biologico-corporale in quelle appartenenti al
cognitivo-mentale, e viceversa.
L’emergere della coscienza rende possibile il costituirsi
della lingua ordinaria, la quale
configura un linguaggio che non è più tacito, ma che fa esplicito riferimento a
significati, i quali appartengono all’universo dell’esperienza di un soggetto.
Reciprocamente, nel suo dire anche di se medesima, la lingua non fa che
esprimere la stessa proprietà riflessiva,
che della coscienza costituisce la caratteristica peculiare.
* Aldo Stella,
Università per Stranieri di Perugia, Piazza Fortebraccio 4, 06123 Perugia,
aldo.stella@unistrapg.it ; Università degli Studi di Perugia, Piazza Ermini 1,
06123 Perugia, aldo.stella@unipg.it .
Giancarlo Ianulardo, University of Exeter, Streatham Court, Exeter (UK),
EX4 4PU, e-mail: g.ianulardo@exeter.ac.uk
Riassunto
Il
dibattito su «monismo e dualismo» riveste un ruolo fondamentale in quell’ambito
di ricerca che viene definito Filosofia
della mente. In questo articolo, vengono mossi rilievi critici alla
concezione del «monismo materialistico», cominciando dalle «teorie
identitiste», che identificano la mente con il cervello, ma non viceversa. Dopo
avere mostrato che è impossibile pensare il concetto di identità a prescindere
dal concetto di relazione, la quale però non va intesa come medio tra estremi, bensì come l’atto del loro riferirsi reciproco, si perviene a cogliere la natura di
mente e cervello: essi non sono res,
ma segni o, più precisamente, universi linguistici. In tal modo, il
problema del loro rapporto diventa il problema della traduzione del linguaggio dell’una nel linguaggio dell’altro, e
viceversa.
* Aldo Stella,
Università per Stranieri di Perugia, Piazza Fortebraccio 4, 06123 Perugia,
aldo.stella@unistrapg.it ; Università degli Studi di Perugia, Piazza Ermini 1,
06123 Perugia, aldo.stella@unipg.it .
Giancarlo Ianulardo, University of Exeter, Streatham Court, Exeter (UK),
EX4 4PU, e-mail: g.ianulardo@exeter.ac.uk
Title: Mind-Body Problem: from the
critique to monism to a possible linguistic solution
Abstract
The debate on «monism and dualism» plays a crucial
role in Philosophy of Mind. In this
article, we advance some criticisms to the «materialistic monism» conception,
starting from «identitist theories», which identify mind with brain, but not
the vice versa. After showing that it is impossible to think the concept of
identity as if it could stand independently from the concept of relation, which
cannot be thought of as medium
between extremes but as the act of
their self-referring, we clarify the nature of mind and brain: they are not res, but signs or, more precisely, linguistic
universes. In this way, the problem of their relationship becomes the
problem of the translation of the language of the one into the language of the
other, and vice versa.
Keywords: Monism, Dualism, Concept of Relation, Translation, Language.
______________________________________
© THÈMES, Revue de la B.P.C.,
II/2016
[1] S. Moravia, L’enigma della mente, Laterza, Roma-Bari
1998⁴, p. VIII.
[2] D.K. Lewis, An argument for the
identity theory, «Journal of
Philosophy», vol. 63, 1966, pp. 17-25.
[3] H. Feigl, The ‘mental’ and the
‘physical’: the essay with a Postscript, University Of Minnesota Press, Minneapolis
1967.
[4] Cfr. U.T. Place, Is consciousness
a brain process?, «British Journal of Psychology», 47, 1956, pp. 44-50.
[5] D.M. Armstrong, The nature of
mind and other essays, University of Queensland Press, Brisbane 1980.
[6] G. Ryle, Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari
2007 (ed. orig. 1949).
[7] D.C. Dennett, Coscienza.
Che cosa è, 2ª ed., Laterza, Roma-Bari 2009 (ed. orig. 1991), p. 45.
[8] A. Damasio, L’errore di
Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995 (ed. orig. 1994).
[9] D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è, cit., pp. 46-47.
[10] P.S. Churchland, L’io come cercello, Raffaello Cortina,
Milano 2014 (ed. orig. 2013), p. 34.
[11] Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano 1978, p. 236
(V, 9, 1018a, 7-9).
[12] Platone, Parmenide, Laterza, Roma-Bari 1976, pp.
21-23 (130e-132b).
[13] Aristotele, Metafisica, cit., p. 105 (I, 9, 990b, 1-18).
[14] Per un approfondimento, si rinvia a W.V.O.
Quine, Epistemologia naturalizzata,
in: W.V.O. Quine, La Relatività
ontologica e altri saggi, Armando, Roma 1986 (ed. orig. 1969), pp. 59-93);
D. Marconi, (a cura di), Naturalismo e
naturalizzazione, Edizioni Mercurio, Vercelli 1999; N. Vassallo, Teoria della conoscenza: l’incerto cammino
della sua naturalizzazione, in: D. Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, cit.,
pp. 47-68; E. Agazzi, N. Vassallo (a cura di), Introduzione al naturalismo filosofico, Franco Angeli, Milano 1998;
M. De Caro, D. Macarthur (eds.), La mente
e la natura. Per un naturalismo liberalizzato, Fazi, Roma 2005 (ed. orig.
2004).
[15] Cfr. A. Stella,
J.L. Dennis, Premesse filosofiche per uno
studio scientifico del pensiero riflessivo, «Epistemologia», 37 (1), 2014,
pp. 119-133.
[16] Con tale
espressione, in genere, si intende la trasformazione dell’energia, che
costituisce la componente fisica dello stimolo, in segnali neurali. Essa, pertanto, si riferisce essenzialmente al
linguaggio biologico. Noi la intendiamo qui in senso estensivo, e cioè
riferendola anche alle forme cognitive, ossia alla trasformazione
dell’informazione contenuta nello stimolo in forme interne.
[17] Per un approfondimento in ordine a tale
concezione, si rinvia a E. Pessa, M. Pietronilla Penna, Manuale di scienza cognitiva. Intelligenza artificiale classica e
psicologia cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2000; D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza,
Roma-Bari 2001; M. Di Francesco, Introduzione
alla filosofia della mente, Carocci, Roma 2002; M. Piattelli Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama,
Einaudi, Torino 2008.
[18] I.P. Pavlov, Conditioned Reflexes.
Routledge and Kegan Paul, London 1927.
[19] Cfr. A. Stella, Cognizione e coscienza. Precisazioni su
alcuni concetti di scienza cognitiva, Guerini Scientifica, Milano 2004;
Id., Questioni di Psicologia del pensiero,
Guerini Scientifica, Milano 2008; Id., Il
programma di radicale naturalizzazione della mente; «Rivista Internazionale
di Filosofia e Psicologia», 5, 3, 2014, pp. 250-266.
[20] Cfr. G.M. Edelman,
Seconda natura. Scienza del cervello e
conoscenza umana, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 13 e pp. 34-38 (ed.
orig. 2006).