Revue de la B.P.C.                           THÈMES                                 III/2005

 

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Mise en ligne novembre 2005                                        Édition spéciale : la pensée de Jean Paul II

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Le strutture di peccato

Una teologia politica della globalizzazione

 

di Salvatore Amato

Professore ordinario di Filosofia del diritto nella Facoltà

di Giurisprudenza dell' Università di Catania

 

 

 

... io vi porto una notizia. Il genere umano esiste

V. Hugo, L’Homme qui rit, 1869

 

     

1. “Esistono più di cinquanta documenti, vuoi continuare?”. Se consultiamo il catalogo elettronico di qualsiasi rivista, di qualsiasi casa editrice, di qualsiasi libreria, l’espressione globalizzazione fa subito comparire questa frase, inquietante e scoraggiante. Sembra che non si possa riflettere sul nostro tempo senza entrare a contatto con la globalizzazione e con i suoi infiniti risvolti politici, economici, sociali, etici, bioetici... Sia che si parli di rapporti di lavoro o della condizione della donna, sia che si discuta della clonazione o del prezzo dei farmaci, la globalizzazione finisce sempre per comparire. Esiste, forse, solo un’eccezione: nei tanti discorsi e saggi che, in Italia, hanno analizzato il pensiero di Giovanni Paolo II, dopo la sua morte, non mi è sembrato di ascoltare nessun accenno alla sua profonda lettura critica della globalizzazione.

Lettura critica? Lettura critica, se pensiamo a Karol Wojtyła come filosofo. Lettura etica, se pensiamo a lui come pastore. Lettura tragica, se pensiamo a lui come profeta, come voce di Dio ai cui richiami l’uomo resta sordo e indifferente. Uno dei problemi del nostro tempo è proprio costituito dalla tendenza a separare questi orizzonti di lettura. La cultura laica (e spesso anche quella cattolica) è portata ad accettare i messaggi del Papa come inviti alla discussione, come capitoli di un manuale di filosofia, ma a rifiutarli drasticamente come inviti alla conversione, come pagine della storia dell’uomo. Il Papa può trovare spazio nei giornali e nei telegiornali, ma non deve spingersi oltre, cercando di interrogare le coscienze. La dimensione profetica, la presenza di Dio va messa da parte, perché sarebbe incompatibile con la lezione weberiana del doppio registro etico: l’etica della convinzione, precettistica e dogmatica, e l’etica della responsabilità, analitica e problematica. Secondo questa vulgata weberiana, ogni affermazione in termini di verità, e in particolare della verità di un Dio che rivela all’uomo un cammino di fede e giustizia, sarebbe incompatibile con la razionalità di una scelta che può essere responsabile solo se è libera e che può essere libera solo se esclude Dio dal proprio orizzonte cognitivo. Il credente può legittimamente partecipare al dibattito pubblico solo “etsi Deus non daretur”, solo se rinuncia a qualsiasi riferimento a una verità rivelata o a un’autorità trascendente l’orizzonte umano[1]. Per prendere sul serio quanto afferma il Papa bisogna, quindi, svalutarne il carattere precettistico e autorevole, insomma non bisogna prenderlo sul serio o  meglio non bisogna prenderlo sul serio per quello che è.

Questa visione, che non so quanto sia veramente weberiana (ma questo è un altro problema), sottolinea il difetto di libertà, ma ignora l’eccesso di responsabilità. Ai laici sembra sfuggire che il punto veramente centrale per il credente non è di non essere libero, ma di non essere solo... Il credente sa che la sua azione, qualunque sua azione, non si esaurisce nella sfera privata e personale, ma riguarda anche Dio e, attraverso Dio, riguarda ogni uomo. “Dio è con noi, sempre”, il tema tanto caro a Bonhöffer, non è un allettamento consolatorio che garantisce la presenza  di qualcuno che fa per noi il compitino, suggerendoci le parole e i comportamenti per cui, come amava ripetere Bobbio, “il laico è l’uomo di ragione, il credente è l’uomo di fede”. Qui non è in gioco una fede senza ragione[2] che sarebbe un non senso, ma l’orizzonte di responsabilità: la fede incondizionata nella presenza di Dio esclude qualsiasi ipocrisia e infingimento per cui non possiamo sottrarci alla consapevolezza di  essere chiamati a rendere conto di noi stessi. Sempre... Un difetto di libertà c’è. Il credente non sceglie la solidarietà: o è solidale o non crede, perché, come ha ribadito la Sollecitudo rei socialis, il bene o è di tutti o non è di nessuno.

Proprio questa responsabilità verso tutti e per il tutto è presente nella radice etimologica dell’essere cattolici. “Catholicus universalis sive generalis interpretatur” ricorda Isidoro di Siviglia (Etymologiae sive Origines 7-14-4), sottolineando quanto sia difficile tradurre correttamente il greco apò tou kath’ólou, “id est secundun totum” (8-1-1), con cui si esprime la spinta etica e interiore a costruire e vivere modelli di vita che siano sempre nella “prospettiva del tutto” e, quindi, tanto universali quanto generali. E’ questa convinzione a trasformare la colpa, la colpa come errore individuale e privato, in peccato e, quindi, in responsabilità sociale e pubblica, imprimendo alle singole condotte quel profondo radicamento etico che si costruisce sull’idea che, se qualcuno soffre, vi sia un torto da riparare. Alla base di ogni organizzazione sociale troviamo un complesso di solidarietà latenti attraverso cui “gli uomini non fanno altro che indebitarsi continuamente l’uno verso l’altro, eccoli continuamente chiamati  a tener fede al loro debito” [3]. Solo nel rapporto tra convinzione e responsabilità si spiega la tendenza storica alla precettistica del Cristianesimo. La precettistica non nasce da un rifiuto della libertà per cui si accetta il vincolo in quanto vincolo. Il vincolo, l’ubbidienza al comando, il dovere, derivano proprio dalla consapevolezza dell’esistenza di un orizzonte condiviso di  libertà: il bene e il male, lo so perché me lo svela la fede nella presenza di Dio, dipendono anche da me. La libertà non si lega, allora, soltanto all’idea di volontà. Non sono libero perché voglio, ma perché devo, perché esiste un quadro etico entro il quale la singola azione assume un senso, si colloca nella prospettiva universale della “compossibilità” [4]. Siamo abituati a riferire a Kant questo modello di ragionamento. Ma qui Kant non fa altro che dare una compiuta struttura filosofica alla legge dell’amore che Paolo spiega nell’Epistola ai Romani: “Fratelli,  non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (13,8). Debito e dovere derivano dalla medesima radice etimologica. Sono in debito perché sono libero di assumere o di rifiutare un vincolo e sono libero perché devo renderne conto a Dio, devo rendere conto di quello che faccio, ma anche di quello che non faccio per l’altro, per qualsiasi altro [5]:  “...e tu non parli per distogliere l’empio dalla sua condotta, egli, l’empio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte chiederò conto a te” (Ezechiele, 33, 8).   

 

2. Essere in debito è, anche, il fondamento per quel "pensare mettendosi al posto di ogni altro" che da Spinoza e Leibniz passa a Kant e da Kant a Rawls e Habermas, delineando  il tessuto etico di una società democratica. Dove si colloca, allora, l’incompatibilità tra laici e credenti? A mio avviso una possibile risposta si trova in un’intuizione di Eugenio Scalfari, quando, presentando, un convegno sulla laicità, mostra come il giornalista riesca veramente a essere più capace del filosofo nel cogliere il senso delle cose. Osserva, infatti, che “il laicismo ha il suo culmine nell’abolizione dell’idea stessa di ‘peccato’. Non c’è peccato se non quello che rafforza le pulsioni contro l’altrui libertà. Non c’è peccato se non l’egoismo dell’io e del noi contro il tu e il voi. Non c’è peccato se non la sopraffazione contro l’altro e contro il diverso. Il laico non è relativista né, tantomeno, indifferente”[6]. Scalfari avverte acutamente che fede in Dio e peccato sono profondamente legati perché rinviano a un orizzonte di trascendenza. In questo senso, chi crede non è mai veramente libero, se per libero si intende autosufficiente, perché non è mai veramente solo: “deve”  sempre andare oltre se stesso, è “debitore” di un’esistenza che non gli appartiene mai completamente. L’oltre segna l’emergere dell’idea di peccato come struttura oggettiva e generale, come soglia in cui si decide la possibilità dell’accettazione o del rifiuto della coesistenza. Il versetto di Ezechiele che ho citato in precedenza sottolinea, di questo incontro con l’altro, la dimensione collettiva del peccato e della pena. Una dimensione tipicamente ebraica che, a contatto con la visione cristiana della redenzione individuale, assume toni sempre più esistenziali, diventa la condanna dell’indifferenza, dell’impossibilità di chiudersi in se stessi fino al punto da ritenere che non vi sia nessun legame con altro. Può l’empio morire per la sua iniquità senza che io ne venga neppure minimamente sfiorato? Può il suo rifiuto non diventare anche il mio rifiuto, la sua empietà non diventare anche la mia empietà? Restare estranei di fronte all’ empio non è lo stesso che restare estranei di fronte a Dio? Posso non ascoltare l’empio e intanto ascoltare Dio? Fino a che punto la barriera di indifferenza che erigo nei suoi confronti  non diventa anche la barriera che mi separa da Dio?

Sotto questo punto di vista la modernità e il secolarismo che l’accompagna sono una grande forma di estraneazione perché si radicano nella convinzione che vi sia una dimensione “naturale”, una dimensione immediata e originaria, in cui l’uomo “considera soltanto se stesso”, deve considerare soltanto se stesso[7]. Questo io assoluto e irrelato, caro tanto Hobbes quanto a Rousseau, finisce per costruire la morale come un semplice riflesso dell’autosufficienza. Lo aveva già intuito Sade e poi teorizzato Nietzsche, ma sono state le raffinate impalcature concettuali delle varie forme di neocontrattualismo, da Nozick a Rawls, da Gauthier a Elster, a  porre nel self interest la premessa di ogni analisi del rapporto tra libertà e razionalità. Il self interest non ha l’ ottusa violenza del libertino o il tragico impeto del super-uomo, ha la pacata pigrizia dell’unusquisque, del cittadino qualunque, ma esprime la medesima tendenza a volere il massimo e a volerlo solo per sé. La “posizione originaria” di Rawls, ad esempio,  esprime l’esigenza di individuare una situazione di estraneazione totale dagli altri, quasi un punto assoluto di solipsismo senza il quale sarebbe impossibile ogni scelta razionale. All’interno dell’autoreferenza soggettiva l’altro appare come autoreferenza contrapposta e il legame sociale, anche in forme solidaristiche così accentuate come l’ idea di maximin a cui Rawls perviene, appare solo un espediente più o meno ragionevole a seconda dei margini di conflittualità che riesce a ridurre. Il crudo antagonismo dei rapporti di forza, caro a Hobbes, ora diventa contrapposizione dei  progetti di vita, in un mondo in cui la solidarietà sorge tra soggetti che sono estranei e che vogliono restare estranei[8].

La modernità non rifiuta, dunque, l’idea di peccato perché ha orrore di Dio. Come dice Sartre, ci possiamo sbarazzare di Dio con la minor spesa possibile. La rifiuta perché ha orrore di tutto quello che sembra mettere in discussione la solitudine originaria, assoluta, essenziale che rende ciascuno il padrone esclusivo di se stesso, l’artefice integrale delle sue azioni e dei suoi comportamenti: “... io sono quello che mi faccio essere” [9]. L’ impossibilità della solitudine, questa tremenda condanna a esistere con gli altri, tormenta le pagine di Sartre, oppresse dalla “viscosità” dell’agire quotidiano e dalla “nausea” della coesistenza; determina l’esaltazione del nulla in Heidegger, per sfuggire allo svuotamento interiore della “chiacchiera”, che ci costringe a “parlare tutti e parlare assieme”;  giustifica le patetiche suggestioni di Rorty che invoca un Dio “privato”, un Dio che soddisfi la mia solitudine. La paura anche solo del contatto fisico (viscosità), anche solo dello sguardo (nausea), anche solo del pensiero (chiacchiera) dell’altro divengono la paura dell’alterità in quanto tale, in quanto orizzonte diverso dal mio. Al massimo, sarebbe tollerabile un orizzonte “debole” che non mi “tocca”, non mi “guarda”, non mi “interroga”: “in questo modo il credere che qualcosa esista realmente e il credere che non esista non entrano in conflitto” [10].

Il peccato implica, invece, il primato dell’altro, impone il dovere di rispondere dei propri atti, anche a costo di rinunciare a se stessi laddove il primato dell’io consente che si possa parlare, al massimo, di errori di calcolo, di valutazioni irragionevoli. Per inciso potremmo notare come non solo l’idea di peccato, ma anche l’idea di colpa appaia, ormai, obsoleta perché legata ancora a quella di pena. Il problema non è far soffrire, ma trovare i giusti equilibri nei rapporti di calcolo, per cui sarebbe più corretto, più “moderno”, parlare di azione indebita a cui corrisponde un diritto sociale d’intervento[11]. Se la “pietra d’inciampo” per il cristiano è la  precettistica, tentazione di dettare legge per tutti, la “pietra d’inciampo” per l’ateo è “l’incapacità della carità”, perché il dovere di sacrificarsi presuppone la “fede in un Altro”[12].

 

3. Credere in Dio significa, allora, collegare libertà e peccato perché non siamo soli. Negare o mettere tra parentesi Dio significa compiere il processo inverso: concepire una libertà senza peccato perché dobbiamo essere soli, dobbiamo essere gli artefici esclusivi del nostro destino. Questa liberazione dal peccato non ha nulla di scontato e banale. La rivendicazione della solitudine ha un prezzo etico elevatissimo che avvertiamo proprio nelle pagine di Heidegger e Sartre in cui l’altro va quasi sradicato a forza, con la stessa forza e consapevolezza di un delitto... come il Raskol’nikov di Dostoevskij: “ho ucciso per me stesso, per me solo...”. Non è facile uccidere solo per sé, come non è facile eliminare “filosoficamente” l’altro dalla costruzione della propria identità per poi reinventarlo politicamente nella costruzione della società. Ce ne accorgiamo dagli sforzi di Gianni Vattimo che tenta di collegare un Cristianesimo senza religione, un Cristianesimo senza Dio con un liberalismo religioso che si inventa un suo Dio[13]. Ce ne accorgiamo leggendo Jean Luc Nancy che vorrebbe insegnare una filosofia che abbia la forza di riconoscersi nel rifiuto del senso in un mondo affidato solo a se stesso e poi ci parla dell’abisso in cui ci precipita l’impossibilità di ogni vincolo, di ogni mediazione. “Niente Cristo, ma soltanto questo luogo medio, che non è più croce, ma soltanto incrocio, intersezione e distanziamento, irraggiamento della dimensione stessa del mondo. Questo sarebbe il culmine e l’abisso di una decostruzione del cristianesimo: la dis-locazione dell’occidente”[14].

C’è un incrocio se “incrocio”, se incontro qualcuno. Un incrocio che rifiuta a priori l’incontro, che cos’é? Troviamo la risposta proprio nella globalizzazione che doveva essere il luogo di incontro in cui si “incrociavano” tutte le aspirazioni del nostro tempo, tutte le culture e le attese storiche di un’umanità fino ad allora divisa ed è invece diventata il simbolo dell’impossibilità del comunicare. La globalizzazione sembrava la via verso una comunione pacifica ed equilibrata tra gli uomini “etsi Deus non daretur”, una comunione, che fosse finalmente sottratta al senso di colpa e al timore del peccato, per essere asetticamente amministrata e garantita dal mercato e dalla tecnologia. Per la prima volta avremmo dovuto assumere la consapevolezza che lo straniero non esiste, che i motivi e le occasioni di incontro sono maggiori delle occasioni di scontro. Crescita della produzione, crescita dell’informazione, crescita della comunicazione, crescita dei rapporti, crescita delle relazioni, crescita della cultura e infine crescita dell’umanità. Un’umanità che affida ormai al dialogo e alla libertà la ricerca della propria identità, segnando una svolta radicale e irreversibile per cui possiamo “...guardare con fiducia all’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come alla forma finale del governo umano”[15].

Nel gennaio del 1996, celebrando dal podio di Capitol Hill la sua rielezione, Clinton era, probabilmente, convinto che tutto questo fosse vero, che veramente l’epilogo del “secolo americano” fosse l’inizio di un’era “globale” di pace e di prosperità. Dopo neppure dieci anni, sono riemersi vecchi conflitti e nuove tensioni. Scontri di religioni, scontri di culture, aumento del divario tra ricchi e poveri, accentuazione del razzismo e della xenofobia, crescita dell’emarginazione. Cosa non ha funzionato? La risposta più semplice riguarda l’illusorietà di un equilibrio ragionevole degli egoismi retto dalla corsa agli utili delle grandi imprese, che controllano la tecnica e il mercato, e dai particolarismi delle nazioni più forti, che controllano le regole e le armi. Come potevamo credere in un tale egoismo disinteressato? Forse, tutto sembrava meno assurdo per l’apparente ovvietà di alcune equazioni: più ricchezza uguale meno povertà; più informazione uguale meno ignoranza; meno ignoranza uguale più conoscenza reciproca; più conoscenza reciproca uguale meno conflitti. Purtroppo, come sappiamo, le cose non sono andate in questo modo: produciamo, ad esempio, alimenti per dodici miliardi di persone, gli abitanti sulla terra sono sei miliardi e quindi... due miliardi di persone sono prive dei mezzi di sussistenza, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Come mai? La risposta è semplice: l’ottantasei per cento del prodotto globale lordo è destinato al venti per cento della popolazione. Ed è sempre questo venti per cento a consumare l’ottanta per cento dei farmaci e a spendere cinquanta miliardi di dollari annui in sigarette, mentre basterebbero solo sei miliardi di dollari per garantire l’istruzione al mondo intero. Potrei continuare ricordando che trecentocinquantotto individui detengono più della metà della ricchezza globale, che un terzo dell’umanità non ha accesso all’acqua potabile né usufruisce di alcuna forma di energia elettrica, che il sessantacinque per cento non ha mai usato il telefono,  che... Serve a qualcosa continuare? C’è un colpevole per tutto questo? Sono colpevoli le imprese di produrre per vendere e di vendere a chi ha i mezzi per comprare... anche i farmaci, anche l’energia, anche le informazioni? E chi ha i mezzi è forse colpevole di acquistare quei beni, quelle cure, quegli svaghi che consentono una vita più comoda, più sana e più lunga? E la nazioni sono forse colpevoli di volere il benessere dei propri cittadini, di favorire le proprie imprese, di aumentare la propria potenza, per poter garantire gli uni e aiutare le altre? 

 

4. Qui la logica laica e secolare entra radicalmente in conflitto con quella religiosa perché non può accettare quella parola che Giovanni Paolo II ha pronunciato continuamente in questi anni: il peccato. Tutto il discorso di apertura del Giubileo (25 agosto del 1999) è incentrato sulla constatazione che il dramma della situazione contemporanea “dipende in gran parte dalla perdita del senso del peccato”. Non ricorre mai la parola globalizzazione, ma  l’analisi poggia sul tema cruciale della valenza sociale del peccato. Anche se è sempre personale ed è radicato nella sfera interiore di ognuno, il peccato produce un continuo peggioramento dell’identità umana in cui si affievoliscono quei doni, che Dio ha attribuito a ciascuno di noi, per consentirci di essere utili agli altri, contribuendo al generale progresso spirituale. Il rapporto tra colpe personali e crisi sociale è accentuato proprio dalla crescita delle opportunità e degli scambi perché maggiori sono i rapporti e maggiori sono i filtri che si pongono tra gli uni e gli: lo stato, il mercato, le organizzazioni internazionali... Maggiori sono i filtri e minore è l’idea che vi sia un responsabile di un certo evento. Cresce, quindi, l’indifferenza che alimenta la rassegnazione e la rassegnazione impedisce di scorgere la soglia sottile in cui la possibilità del bene diviene la realtà del male, producendo effetti devastanti sulle coscienze che appaiono quasi incapaci di trovare alle proprie azioni un senso diverso dalla soddisfazione del piacere e dalla massimizzazioni degli utili. “L’interdipendenza dei sistemi sociali, economici e politici crea nel mondo di oggi molteplici strutture di peccato”, perché moltiplica le occasioni e intanto allarga gli effetti negativi del singolo comportamento: i deboli divengono ancora più deboli, i forti ancora più forti, le ricchezze si concentrano, la povertà si estende. Come nella parabola del ricco epulone, alla tragedia della fame si contrappone l’ostentazione di un’abbondanza sperperata. “Se poi si pensa alle strutture di peccato che frenano lo sviluppo dei popoli più svantaggiati sotto il profilo economico e politico, verrebbe proprio da arrendersi di fronte a un male morale che sembra ineluttabile” (§ 3).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 aveva ribadito la natura personale del peccato,  sottolineando però quella tendenza alla proliferazione per cui il peccato “trascina” il peccato fino a  rendere, in qualche modo, gli uomini complici gli uni degli altri nel provocare l’origine “di situazioni sociali e di istituzioni contrarie alla Bontà divina”. Si vengono, quindi, a determinare  “strutture di peccato” che, pur essendo espressione di singoli atti, moltiplicano le occasioni di commettere il male. “In un senso analogico, esse costituiscono un peccato sociale” (§ 1869).

 Questo tema della “socialità” del peccato costituisce il nucleo della lettura teologica dei problemi del nostro tempo condotta nella Sollecitudo rei socialis del 1987. Qui le “strutture di peccato” assumono una precisa identità: l’imperialismo, che dividendo il mondo in blocchi ideologicamente contrapposti, impedisce l’interdipendenza e la solidarietà; l’idolatria del denaro, della classe, della tecnologia; la brama di profitto e la sete di potere. Insomma siamo di fronte ad “assolutizzazioni di atteggiamenti umani” di cui sono vittime non solo gli individui, ma anche le Nazioni e i gruppi politici, economici, sociali. L’Enciclica muove dalla consapevolezza del fatto che “peccato” e “strutture di peccato” non sono categorie applicate spesso alla situazione del mondo contemporaneo. “Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che l’affliggono” (§ 36). Non si può separare la dimensione politica da quella antropologica. Ci possono essere scelte economiche sbagliate, condizioni  storiche particolari, congiunture sociali inattese, che impediscono di individuare un responsabile in senso stretto, tuttavia il male c’è e ha la sua origine nel modo in cui l’uomo concepisce se stesso e i rapporti con gli altri. “Ho voluto introdurre questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia il vero tipo di male a cui ci si trova di fronte nella questione dello ‘sviluppo’ dei popoli: si tratta di un male morale, frutto di molti peccati...” (§ 37). E’ impossibile pretendere di eliminarli se non cambiano radicalmente gli atteggiamenti spirituali che “definiscono i rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con la natura, in virtù di valori superiori come il bene comune...” (§ 38). Il bene comune va inteso come il bene di tutti e di ciascuno perché “tutti siamo veramente responsabili di tutti” (§ 38), siamo responsabili, come già aveva ricordato la Populorum progressio, “di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”.

Proprio su indicazione di Giovanni Paolo II era stato preparato dal Pontificio Consiglio “Cor Unum” il documento La fame nel mondo. Una sfida per tutti: lo sviluppo solidale (4. ottobre. 1996), che partiva dall’idea “che non si possano affrontare i settori economico, sociale e politico prescindendo dalla dimensione trascendente dell'uomo” (§ 1). La fame nel mondo è, dunque, un “male morale” che, al di là di tutte le cause fisiche, strutturali e culturali, ci chiama inequivocabilmente a rispondere del nostro tradimento verso Dio, che ha destinato i beni della terra alla comunione universale perché “essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno” [16]. Alla luce delle finalità della creazione, non è possibile costruire il diritto di proprietà in termini assoluti, tutelando solo il diritto individuale di godimento senza considerare il rispetto della dignità  altrui e il dovere di perseguire il bene comune attraverso la promozione di tutti. Il documento prosegue prendendo in esame, nel paragrafo 25, Le costose deviazioni dal bene comune: le «strutture di peccato». Costose sta a indicare la difficoltà, quasi “eroica”, nel rifiutare di cedere a quella sottile perversione che “il denaro, il potere, la reputazione, perseguiti per se stessi” hanno creato. Un “coacervo di luoghi e di circostanze” che diventa estremamente difficile separare dalle strutture normali di funzionamento della società in una sorta di sottile contagio per cui quello che potrebbe indurre al bene diventa male, deviando dalla sua destinazione originaria per scopi particolari e sterili.  “Le ‘strutture di peccato’ sono molteplici: alcune sono diffuse a livello mondiale — come per esempio i meccanismi ed i comportamenti che generano la fame — altre sono su scala molto più ridotta, ma provocano dissimmetrie tali da rendere molto più difficile la pratica del bene. Queste ‘strutture’ determinano sempre costi elevati in termini umani: sono luoghi di distruzione del bene comune”. Non sono solo l’ignoranza e l’incompetenza a frenare lo sviluppo, ma anche la cupidigia, l’orgoglio e la vanità che finiscono per accecare, rendendo ciascuno incapace di comprendere appieno quanto siano limitate le sue percezioni e distruttive le sue azioni. E’ per questo motivo, per l’impossibilità di distinguere le “strutture del bene”  dalle “strutture del male”, che “il funzionamento dell'economia mondiale appare globalmente mediocre — specie in rapporto ai risultati di punta che ottengono alcuni paesi su periodi alquanto lunghi — ed estremamente costoso in termini umani (laddove funziona e laddove non funziona), in quanto è profondamente minato dal costo delle cattive abitudini, vera costrizione morale che grava sugli individui”.

Il documento vuole farci riflettere sul fatto che denaro, potere e reputazione non sono mali in sé, lo diventano se non sono messi al servizio: a) della costruzione della produzione di beni e servizi di effettiva utilità sociale ed in grado di promuovere il bene comune; b) della condivisione con i più svantaggiati delle risorse e delle opportunità. “... non appena dei gruppi di persone riescono a lavorare di comune accordo facendosi carico della collettività intera e di ogni singola persona, si registrano progressi notevoli: persone fino a quel momento poco utili, eccellono per la qualità dei loro servizi e gli esiti positivi modificano progressivamente le condizioni materiali, psicologiche e morali della vita. Si tratta in realtà degli ‘opposti’ delle ‘strutture di peccato’; le si potrebbero definire ‘strutture del bene comune’, che preparano la ‘civiltà dell'amore’ ”.

 

5. Il tema delle “strutture di peccato” ci pone, dunque, di fronte a uno degli elementi più rilevanti dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, che caratterizza i suoi scritti e anima le rivendicazioni più immediatamente politiche e sociali del suo pontificato: dalla richiesta dell’abbattimento del debito pubblico dei paesi del terzo mondo alla condanna della guerra, dal rifiuto della pena di morte alla preoccupazione per la manipolazione tecnologica della vita. Vi viene espressa una chiara visione del Cristianesimo e una ben precisa lettura del nostro tempo. Sotto il primo punto di vista “il Cristianesimo non è soltanto una religione della conoscenza, della contemplazione. E’ una religione dell’azione di Dio e dell’azione dell’uomo”[17]. Sotto il secondo punto di vista, la nostra è una civiltà che ha enormi potenzialità e ha conseguito indubbi successi in molti campi, ha però commesso una grande quantità di errori ed abusi, rivestendoli di una struttura filosofica e politica che corre il rischio di smarrire il senso dell’identità umana. E’ avvenuto con la protesta di fronte all’ingiustizia, espressa dal comunismo, che ha finito per determinare un apparato di violenza e di emarginazione: una medicina “più pericolosa e, all’atto pratico, più dannosa, della malattia stessa. La stessa cosa sta avvenendo con il capitalismo, il consumismo, il relativismo con tutte quelle manifestazioni in cui l’uomo, assolutizzando se stesso, finisce per smarrire l’altro, perché ha smarrito Dio.      

Possiamo veramente pensare che, se Dio ci guardasse e vedesse morire di paludismo quei bambini che potrebbero essere curati con molto meno di quello che spendiamo in diete, in palestre, in centri di bellezza, non dovrebbe chiederci conto del nostro operato?  Il problema è che, “etsi deus non daretur”, è facile cadere nella tentazione del solipsimo, nell’acquietante e razionale giustificazione  per cui individualmente non sono responsabile della sorte del mondo. Non dipende da me la distribuzione delle risorse e neppure il funzionamento del mercato o la cura delle malattie. L’individualismo diventa il peccato del solipsismo, quando ci mette al riparo da qualsiasi responsabilità per cui i mali peggiori possono avvenire davanti ai  nostri occhi senza turbare la nostra serenità[18]. La mia possibilità di bene si sottomette all’accettazione del male tutte le volte in cui mi tiro da parte nella convinzione che, qualsiasi cosa avvenga, non potrei fare nulla per evitarla. Giovanni Paolo II  chiama, tutto questo,  “peccato”; la teoria politica self interest.

Il condizionamento del self interest spiega il motivo per cui la teoria politica abbia, in questi anni, accentuato due dimensione della libertà: la libertà da, l’indipendenza politica e sociale da ogni condizionamento esteriore, e la libertà di, l’effettiva capacità di scegliere, ottenendo i necessari mezzi economici e culturali, trascurando la libertà per, il modo in cui utilizzo le mie capacità per il bene comune. Anche l’indifferenza, anche la pigrizia, anche il rifiuto di ascoltare sono una colpa, perché sono responsabile non solo del male che arreco, ma anche della sofferenza che potrei alleviare. La libertà per presuppone la libertà da e la libertà di, ma ne allarga la valenza antropologica, mostrando come sia vano costruire una società democratica in cui “pensiamo tutti e pensiamo assieme” (libertà da e la libertà di) se non siamo anche in grado di “pensare a tutti” (libertà per). Il peccato richiama proprio la centralità della libertà per come coronamento della libertà di e della libertà da, perché sono libero, ma non sono solo. Non diminuisce, dunque, la libertà personale, ma l’accresce con la responsabilità personale. 

La Lettera apostolica Salvifici doloris sul senso cristiano della sofferenza (Lourdes, 11 febbraio dell'anno 1984) ci ricorda che siamo tutti chiamati a scrivere una pagina del Vangelo. “I1 Vangelo della sofferenza viene scritto incessantemente, ed incessantemente parla con le parole di questo strano paradosso: le sorgenti della forza divina sgorgano proprio in mezzo all'umana debolezza. Coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell'infinito tesoro della redenzione del mondo, e possono condividere questo tesoro con gli altri. Quanto più l'uomo è minacciato dal peccato, quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d'oggi, tanto più grande è l'eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede”.

Per questo motivo, Giovanni Paolo II ci chiama a rendere conto del nostro operato dinanzi alle “immense moltitudini di affamati, mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica e, sopratutto, senza speranza di un futuro migliore” (Sollecitudo rei socialis § 42). Possiamo ignorare tutto ciò e, intanto, proclamare la priorità dell’opzione per i poveri che sta alla base dell’insegnamento cristiano? Questa priorità non deriva dal self interest, dal calcolo razionale per cui è sempre meglio vivere in una società che tutela i meno avvantaggiati perché non si sa mai, non so cosa mi potrà riservare la lotteria naturale. Deriva dalla semplice e radicale constatazione che i beni di questo mondo sono stati originariamente destinati da Dio a tutti. “Etsi Deus non daretur”: se tolgo Dio da questo assunto, è impossibile lasciare il “tutti”, evitando la sopraffazione e l’emarginazione. Se cancelliamo il Dio che dà a tutti, resta l’io che prende solo per sé. Giovanni Paolo II evoca questo progressivo allontanamento di Dio e, attraverso l’analisi delle strutture di peccato,  ne esamina i riflessi diretti e indiretti, personali e sociali. La cultura laica lascia tutto ciò senza nome e senza causa, offrendo una comoda protezione alle nostre coscienze che possono così assistere ai mali peggiori, rimanendo in perfetta tranquillità: l’economia e la politica sono un gioco a “somma zero”: se qualcuno vince, qualche altro deve perdere. Non può che perdere, non c’é rimedio: sono le vittime necessarie delle regole del gioco.

Di fronte a questa ineluttabilità della prassi che, anziché liberare l’uomo, lo abbandona alle pieghe della storia, va rivendicato il ruolo centrale della teologia politica come “teologia pratica” che ispira e orienta l’azione. Il messaggio escatologico cristiano diventa la chiave critica di lettura del nostro tempo. Nessuna contrapposizione, dunque, con la “ragione critica” sviluppata dall’Illuminismo proprio perché non limita il tema politico al problema della legittimazione del potere, ma “lo riferisce sempre nuovamente – in vista della trasformazione e del progresso delle costituzioni politiche stesse- alla storia sociale della libertà...” [19]. La teologia non sceglie governi e governanti, ma sottolinea come la libertà non sia solitudine, ma ricerca dell’altro e responsabilità verso l’altro:  una domanda di giustizia che mette continuamente in discussione il nostro essere nel mondo, ci interroga su quelle colpe nascoste anche dietro strutture, che non abbiamo creato, ma in cui viviamo, da cui traiamo tutti i vantaggi, finendo per accettarne la logica e per giustificarle. Sono queste le “strutture di peccato” che segnano la crisi della globalizzazione: se non riusciamo a vederle è proprio perché ormai la vita sociale e la vita politica sono diventate un “incrocio senza incrocio” da cui si alimenta, giorno per giorno, telegiornale per telegiornale, la nostra illusione che vi siano vittime senza carnefici.  

 

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© THÈMES     III/2005

 



[1] Prendo a modello uno dei tanti  saggi G. E. Rusconi su questo argomento (Laici e cattolici oggi, in “Il Mulino, 2000-2002).

[2] Secondo la lettura di Flores d’Arcais, Aut fides aut ratio, in “Micromega”, 1998-5.

[3] J. Pieper, La giustizia, tr. it., Brescia, Morcelliana - Massimo, 2000, pp. 85-86. 

[4] F. D’Agostino, Filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1996, p. 3 e Id., Diritto e giustizia, San Paolo, Brescia, 2000, cap. I.

[5] "Affinché esista una relazione di giustizia è necessario che i soggetti siano in debito. Non ci riferiamo, in questo caso, alle differenze o alle disuguaglianze sociali che indubbiamente possono esistere, ma a quel tipo di uguaglianza che permette di soddisfare il debito" osserva J. Hervada, Introduzione critica al diritto naturale,  tr. it. Milano, Giuffrè, 1990, p. 40.

[6] E. Scalfari, Perché non possiamo non dirci laici, in Dibattito sul laicismo, a cura di E. Scalfari, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2005, p. 15.

[7] “La dimensione umana del politico è quella del relazionale, di questa intersoggettività che il realismo aristotelico e tomistico ha trasmesso alla cultura occidentale prima che essa fosse vittima del razionalismo (...) che, emancipato dal rapporto con l’altro, ha preparato il nichilismo e il formalismo contemporaneo” (J. M. Trigeaud, Elementi di filosofia politica, tr. it. L’Aquila- Roma. Japadre, 1992, p. 353). 

[8] Secondo la felice sintesi di J. Habermas, Solidarietà tra estranei, tr. it., Milano, Guerini e Associati, 1997.

[9] J. P. Sartre, L’essere e il nulla, tr.it. , Milano, Il Saggiatore, 1997, p. 287.

[10] R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, tr. it. in R. Rorty, G. Vattimo, Il futuro della religione, Milano, Garzanti, 2005, p. 45.

[11]  K. Lüdersen, Il declino del diritto penale, tr. it. Milano, Giuffrè, 2005, p. 50.

[12] P. Flores d’Arcais, Dio esiste?, in « Micromega », 2000-2, p. 40.

[13] G. Vattimo, Dopo la cristianità per un cristianesimo non religioso, Milano, Garzanti, 2002.

[14]  J. L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it., Torino, Einaudi, 2001, p. 127.

[15] A. Schlesinger jr. sintetizzava così, non senza ironia, i facili ottimismi dei teorici della fine della storia (La democrazia. Colloquio di Paolo Mastrilli con Arthur Schlesinger, Roma, Biblioteca di Liberal, 1999, p, 8.

[16] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Centesimus annus (1991), § 31.

[17] Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, Milano, Mondadori, 1994, p. 143.

[18] Penso alle belle pagine di Th. Merton, Diario di un testimone colpevole, tr. it., Milano, Garzanti, 1992, p. 208.

[19] J.B. Metz, Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997, tr. it., Brescia, Queriniana, 1998, p. 42.