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Mise
en ligne novembre 2005 Édition spéciale : la
pensée de Jean Paul II
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Le strutture di peccato
Una teologia politica della globalizzazione
di Salvatore Amato
Professore ordinario di Filosofia del diritto nella Facoltà
di Giurisprudenza dell' Università di Catania
... io vi porto una notizia. Il genere umano esiste
V. Hugo, L’Homme qui rit, 1869
1.
“Esistono più di cinquanta documenti, vuoi continuare?”. Se consultiamo il
catalogo elettronico di qualsiasi rivista, di qualsiasi casa editrice, di
qualsiasi libreria, l’espressione globalizzazione fa subito comparire questa
frase, inquietante e scoraggiante. Sembra che non si possa riflettere sul
nostro tempo senza entrare a contatto con la globalizzazione e con i suoi
infiniti risvolti politici, economici, sociali, etici, bioetici... Sia che si
parli di rapporti di lavoro o della condizione della donna, sia che si discuta
della clonazione o del prezzo dei farmaci, la globalizzazione finisce sempre
per comparire. Esiste, forse, solo un’eccezione: nei tanti discorsi e saggi
che, in Italia, hanno analizzato il pensiero di Giovanni Paolo II, dopo la sua
morte, non mi è sembrato di ascoltare nessun accenno alla sua profonda lettura
critica della globalizzazione.
Lettura critica? Lettura critica, se pensiamo a
Karol Wojtyła come filosofo. Lettura etica, se pensiamo a lui come
pastore. Lettura tragica, se pensiamo a lui come profeta, come voce di Dio ai
cui richiami l’uomo resta sordo e indifferente. Uno dei problemi del nostro
tempo è proprio costituito dalla tendenza a separare questi orizzonti di
lettura. La cultura laica (e spesso anche quella cattolica) è portata ad
accettare i messaggi del Papa come inviti alla discussione, come capitoli di un
manuale di filosofia, ma a rifiutarli drasticamente come inviti alla
conversione, come pagine della storia dell’uomo. Il Papa può trovare spazio nei
giornali e nei telegiornali, ma non deve spingersi oltre, cercando di
interrogare le coscienze. La dimensione profetica, la presenza di Dio va messa
da parte, perché sarebbe incompatibile con la lezione weberiana del doppio
registro etico: l’etica della convinzione, precettistica e dogmatica, e l’etica
della responsabilità, analitica e problematica. Secondo questa vulgata
weberiana, ogni affermazione in termini di verità, e in particolare della
verità di un Dio che rivela all’uomo un cammino di fede e giustizia, sarebbe
incompatibile con la razionalità di una scelta che può essere responsabile solo
se è libera e che può essere libera solo se esclude Dio dal proprio orizzonte
cognitivo. Il credente può legittimamente partecipare al dibattito pubblico
solo “etsi Deus non daretur”, solo se rinuncia a qualsiasi riferimento a una
verità rivelata o a un’autorità trascendente l’orizzonte umano[1].
Per prendere sul serio quanto afferma il Papa bisogna, quindi, svalutarne il
carattere precettistico e autorevole, insomma non bisogna prenderlo sul serio
o meglio non bisogna prenderlo sul
serio per quello che è.
Questa visione, che non so quanto sia veramente
weberiana (ma questo è un altro problema), sottolinea il difetto di libertà, ma
ignora l’eccesso di responsabilità. Ai laici sembra sfuggire che il punto
veramente centrale per il credente non è di non essere libero, ma di non essere
solo... Il credente sa che la sua azione, qualunque sua azione, non si
esaurisce nella sfera privata e personale, ma riguarda anche Dio e, attraverso
Dio, riguarda ogni uomo. “Dio è con noi, sempre”, il tema tanto caro a
Bonhöffer, non è un allettamento consolatorio che garantisce la presenza di qualcuno che fa per noi il compitino,
suggerendoci le parole e i comportamenti per cui, come amava ripetere Bobbio,
“il laico è l’uomo di ragione, il credente è l’uomo di fede”. Qui non è in
gioco una fede senza ragione[2]
che sarebbe un non senso, ma l’orizzonte di responsabilità: la fede
incondizionata nella presenza di Dio esclude qualsiasi ipocrisia e infingimento
per cui non possiamo sottrarci alla consapevolezza di essere chiamati a rendere conto di noi stessi. Sempre... Un
difetto di libertà c’è. Il credente non sceglie la solidarietà: o è solidale o
non crede, perché, come ha ribadito la Sollecitudo rei socialis, il bene
o è di tutti o non è di nessuno.
Proprio questa responsabilità verso tutti e per il
tutto è presente nella radice etimologica dell’essere cattolici. “Catholicus
universalis sive generalis interpretatur” ricorda Isidoro di Siviglia (Etymologiae
sive Origines 7-14-4), sottolineando quanto sia difficile tradurre
correttamente il greco apò tou kath’ólou, “id est secundun totum”
(8-1-1), con cui si esprime la spinta etica e interiore a costruire e vivere
modelli di vita che siano sempre nella “prospettiva del tutto” e, quindi, tanto
universali quanto generali. E’ questa convinzione a trasformare la colpa, la
colpa come errore individuale e privato, in peccato e, quindi, in
responsabilità sociale e pubblica, imprimendo alle singole condotte quel
profondo radicamento etico che si costruisce sull’idea che, se qualcuno soffre,
vi sia un torto da riparare. Alla base di ogni organizzazione sociale troviamo
un complesso di solidarietà latenti attraverso cui “gli uomini non fanno altro
che indebitarsi continuamente l’uno verso l’altro, eccoli continuamente
chiamati a tener fede al loro debito” [3].
Solo nel rapporto tra convinzione e responsabilità si spiega la tendenza
storica alla precettistica del Cristianesimo. La precettistica non nasce da un
rifiuto della libertà per cui si accetta il vincolo in quanto vincolo. Il
vincolo, l’ubbidienza al comando, il dovere, derivano proprio dalla
consapevolezza dell’esistenza di un orizzonte condiviso di libertà: il bene e il male, lo so perché me
lo svela la fede nella presenza di Dio, dipendono anche da me. La libertà non
si lega, allora, soltanto all’idea di volontà. Non sono libero perché voglio,
ma perché devo, perché esiste un quadro etico entro il quale la singola azione
assume un senso, si colloca nella prospettiva universale della “compossibilità”
[4].
Siamo abituati a riferire a Kant questo modello di ragionamento. Ma qui Kant
non fa altro che dare una compiuta struttura filosofica alla legge dell’amore
che Paolo spiega nell’Epistola ai Romani: “Fratelli, non abbiate alcun debito con nessuno, se non
quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la
legge” (13,8). Debito e dovere derivano dalla medesima radice etimologica. Sono
in debito perché sono libero di assumere o di rifiutare un vincolo e sono
libero perché devo renderne conto a Dio, devo rendere conto di quello che
faccio, ma anche di quello che non faccio per l’altro, per qualsiasi altro [5]: “...e tu non parli per distogliere l’empio
dalla sua condotta, egli, l’empio, morirà per la sua iniquità, ma della sua
morte chiederò conto a te” (Ezechiele, 33, 8).
2.
Essere in debito è, anche, il fondamento per quel "pensare mettendosi al
posto di ogni altro" che da Spinoza e Leibniz passa a Kant e da Kant a
Rawls e Habermas, delineando il tessuto
etico di una società democratica. Dove si colloca, allora, l’incompatibilità
tra laici e credenti? A mio avviso una possibile risposta si trova in
un’intuizione di Eugenio Scalfari, quando, presentando, un convegno sulla
laicità, mostra come il giornalista riesca veramente a essere più capace del
filosofo nel cogliere il senso delle cose. Osserva, infatti, che “il laicismo
ha il suo culmine nell’abolizione dell’idea stessa di ‘peccato’. Non c’è
peccato se non quello che rafforza le pulsioni contro l’altrui libertà. Non c’è
peccato se non l’egoismo dell’io e del noi contro il tu e il voi. Non c’è
peccato se non la sopraffazione contro l’altro e contro il diverso. Il laico
non è relativista né, tantomeno, indifferente”[6].
Scalfari avverte acutamente che fede in Dio e peccato sono profondamente legati
perché rinviano a un orizzonte di trascendenza. In questo senso, chi crede non
è mai veramente libero, se per libero si intende autosufficiente, perché non è
mai veramente solo: “deve” sempre
andare oltre se stesso, è “debitore” di un’esistenza che non gli appartiene mai
completamente. L’oltre segna l’emergere dell’idea di peccato come struttura
oggettiva e generale, come soglia in cui si decide la possibilità
dell’accettazione o del rifiuto della coesistenza. Il versetto di Ezechiele che
ho citato in precedenza sottolinea, di questo incontro con l’altro, la
dimensione collettiva del peccato e della pena. Una dimensione tipicamente
ebraica che, a contatto con la visione cristiana della redenzione individuale,
assume toni sempre più esistenziali, diventa la condanna dell’indifferenza,
dell’impossibilità di chiudersi in se stessi fino al punto da ritenere che non
vi sia nessun legame con altro. Può l’empio morire per la sua iniquità senza
che io ne venga neppure minimamente sfiorato? Può il suo rifiuto non diventare
anche il mio rifiuto, la sua empietà non diventare anche la mia empietà?
Restare estranei di fronte all’ empio non è lo stesso che restare estranei di
fronte a Dio? Posso non ascoltare l’empio e intanto ascoltare Dio? Fino a che
punto la barriera di indifferenza che erigo nei suoi confronti non diventa anche la barriera che mi separa
da Dio?
Sotto questo punto di vista la modernità e il
secolarismo che l’accompagna sono una grande forma di estraneazione perché si
radicano nella convinzione che vi sia una dimensione “naturale”, una dimensione
immediata e originaria, in cui l’uomo “considera soltanto se stesso”, deve
considerare soltanto se stesso[7].
Questo io assoluto e irrelato, caro tanto Hobbes quanto a Rousseau, finisce per
costruire la morale come un semplice riflesso dell’autosufficienza. Lo aveva
già intuito Sade e poi teorizzato Nietzsche, ma sono state le raffinate
impalcature concettuali delle varie forme di neocontrattualismo, da Nozick a
Rawls, da Gauthier a Elster, a porre nel
self interest la premessa di ogni analisi del rapporto tra libertà e
razionalità. Il self interest non ha l’ ottusa violenza del libertino o
il tragico impeto del super-uomo, ha la pacata pigrizia dell’unusquisque,
del cittadino qualunque, ma esprime la medesima tendenza a volere il massimo e
a volerlo solo per sé. La “posizione originaria” di Rawls, ad esempio, esprime l’esigenza di individuare una
situazione di estraneazione totale dagli altri, quasi un punto assoluto di
solipsismo senza il quale sarebbe impossibile ogni scelta razionale.
All’interno dell’autoreferenza soggettiva l’altro appare come autoreferenza
contrapposta e il legame sociale, anche in forme solidaristiche così accentuate
come l’ idea di maximin a cui Rawls perviene, appare solo un espediente
più o meno ragionevole a seconda dei margini di conflittualità che riesce a
ridurre. Il crudo antagonismo dei rapporti di forza, caro a Hobbes, ora diventa
contrapposizione dei progetti di vita,
in un mondo in cui la solidarietà sorge tra soggetti che sono estranei e che
vogliono restare estranei[8].
La modernità non rifiuta, dunque, l’idea di peccato
perché ha orrore di Dio. Come dice Sartre, ci possiamo sbarazzare di Dio con la
minor spesa possibile. La rifiuta perché ha orrore di tutto quello che sembra
mettere in discussione la solitudine originaria, assoluta, essenziale che rende
ciascuno il padrone esclusivo di se stesso, l’artefice integrale delle sue
azioni e dei suoi comportamenti: “... io sono quello che mi faccio essere” [9].
L’ impossibilità della solitudine, questa tremenda condanna a esistere con gli
altri, tormenta le pagine di Sartre, oppresse dalla “viscosità” dell’agire
quotidiano e dalla “nausea” della coesistenza; determina l’esaltazione del
nulla in Heidegger, per sfuggire allo svuotamento interiore della
“chiacchiera”, che ci costringe a “parlare tutti e parlare assieme”; giustifica le patetiche suggestioni di Rorty
che invoca un Dio “privato”, un Dio che soddisfi la mia solitudine. La paura
anche solo del contatto fisico (viscosità), anche solo dello sguardo (nausea),
anche solo del pensiero (chiacchiera) dell’altro divengono la paura
dell’alterità in quanto tale, in quanto orizzonte diverso dal mio. Al massimo,
sarebbe tollerabile un orizzonte “debole” che non mi “tocca”, non mi “guarda”,
non mi “interroga”: “in questo modo il credere che qualcosa esista realmente e
il credere che non esista non entrano in conflitto” [10].
Il peccato implica, invece, il primato dell’altro,
impone il dovere di rispondere dei propri atti, anche a costo di rinunciare a
se stessi laddove il primato dell’io consente che si possa parlare, al massimo,
di errori di calcolo, di valutazioni irragionevoli. Per inciso potremmo notare
come non solo l’idea di peccato, ma anche l’idea di colpa appaia, ormai, obsoleta
perché legata ancora a quella di pena. Il problema non è far soffrire, ma
trovare i giusti equilibri nei rapporti di calcolo, per cui sarebbe più
corretto, più “moderno”, parlare di azione indebita a cui corrisponde un
diritto sociale d’intervento[11].
Se la “pietra d’inciampo” per il cristiano è la precettistica, tentazione di dettare legge per tutti, la “pietra
d’inciampo” per l’ateo è “l’incapacità della carità”, perché il dovere di
sacrificarsi presuppone la “fede in un Altro”[12].
3.
Credere in Dio significa, allora, collegare libertà e peccato perché non siamo
soli. Negare o mettere tra parentesi Dio significa compiere il processo
inverso: concepire una libertà senza peccato perché dobbiamo essere soli,
dobbiamo essere gli artefici esclusivi del nostro destino. Questa liberazione
dal peccato non ha nulla di scontato e banale. La rivendicazione della
solitudine ha un prezzo etico elevatissimo che avvertiamo proprio nelle pagine
di Heidegger e Sartre in cui l’altro va quasi sradicato a forza, con la stessa
forza e consapevolezza di un delitto... come il Raskol’nikov di Dostoevskij:
“ho ucciso per me stesso, per me solo...”. Non è facile uccidere solo per sé,
come non è facile eliminare “filosoficamente” l’altro dalla costruzione della
propria identità per poi reinventarlo politicamente nella costruzione della
società. Ce ne accorgiamo dagli sforzi di Gianni Vattimo che tenta di collegare
un Cristianesimo senza religione, un Cristianesimo senza Dio con un liberalismo
religioso che si inventa un suo Dio[13].
Ce ne accorgiamo leggendo Jean Luc Nancy che vorrebbe insegnare una filosofia
che abbia la forza di riconoscersi nel rifiuto del senso in un mondo affidato
solo a se stesso e poi ci parla dell’abisso in cui ci precipita l’impossibilità
di ogni vincolo, di ogni mediazione. “Niente Cristo, ma soltanto questo luogo
medio, che non è più croce, ma soltanto incrocio, intersezione e
distanziamento, irraggiamento della dimensione stessa del mondo. Questo sarebbe
il culmine e l’abisso di una decostruzione del cristianesimo: la dis-locazione
dell’occidente”[14].
C’è un incrocio se “incrocio”, se incontro qualcuno.
Un incrocio che rifiuta a priori l’incontro, che cos’é? Troviamo la risposta
proprio nella globalizzazione che doveva essere il luogo di incontro in cui si
“incrociavano” tutte le aspirazioni del nostro tempo, tutte le culture e le
attese storiche di un’umanità fino ad allora divisa ed è invece diventata il
simbolo dell’impossibilità del comunicare. La globalizzazione sembrava la via
verso una comunione pacifica ed equilibrata tra gli uomini “etsi Deus non
daretur”, una comunione, che fosse finalmente sottratta al senso di colpa e al
timore del peccato, per essere asetticamente amministrata e garantita dal
mercato e dalla tecnologia. Per la prima volta avremmo dovuto assumere la
consapevolezza che lo straniero non esiste, che i motivi e le occasioni di
incontro sono maggiori delle occasioni di scontro. Crescita della produzione,
crescita dell’informazione, crescita della comunicazione, crescita dei
rapporti, crescita delle relazioni, crescita della cultura e infine crescita
dell’umanità. Un’umanità che affida ormai al dialogo e alla libertà la ricerca
della propria identità, segnando una svolta radicale e irreversibile per cui
possiamo “...guardare con fiducia all’universalizzazione della democrazia
liberale occidentale, come alla forma finale del governo umano”[15].
Nel gennaio del 1996, celebrando dal podio di
Capitol Hill la sua rielezione, Clinton era, probabilmente, convinto che tutto
questo fosse vero, che veramente l’epilogo del “secolo americano” fosse
l’inizio di un’era “globale” di pace e di prosperità. Dopo neppure dieci anni,
sono riemersi vecchi conflitti e nuove tensioni. Scontri di religioni, scontri
di culture, aumento del divario tra ricchi e poveri, accentuazione del razzismo
e della xenofobia, crescita dell’emarginazione. Cosa non ha funzionato? La
risposta più semplice riguarda l’illusorietà di un equilibrio ragionevole degli
egoismi retto dalla corsa agli utili delle grandi imprese, che controllano la tecnica
e il mercato, e dai particolarismi delle nazioni più forti, che controllano le
regole e le armi. Come potevamo credere in un tale egoismo disinteressato?
Forse, tutto sembrava meno assurdo per l’apparente ovvietà di alcune equazioni:
più ricchezza uguale meno povertà; più informazione uguale meno ignoranza; meno
ignoranza uguale più conoscenza reciproca; più conoscenza reciproca uguale meno
conflitti. Purtroppo, come sappiamo, le cose non sono andate in questo modo:
produciamo, ad esempio, alimenti per dodici miliardi di persone, gli abitanti
sulla terra sono sei miliardi e quindi... due miliardi di persone sono prive
dei mezzi di sussistenza, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Come
mai? La risposta è semplice: l’ottantasei per cento del prodotto globale lordo
è destinato al venti per cento della popolazione. Ed è sempre questo venti per
cento a consumare l’ottanta per cento dei farmaci e a spendere cinquanta
miliardi di dollari annui in sigarette, mentre basterebbero solo sei miliardi di
dollari per garantire l’istruzione al mondo intero. Potrei continuare
ricordando che trecentocinquantotto individui detengono più della metà della
ricchezza globale, che un terzo dell’umanità non ha accesso all’acqua potabile
né usufruisce di alcuna forma di energia elettrica, che il sessantacinque per
cento non ha mai usato il telefono,
che... Serve a qualcosa continuare? C’è un colpevole per tutto questo?
Sono colpevoli le imprese di produrre per vendere e di vendere a chi ha i mezzi
per comprare... anche i farmaci, anche l’energia, anche le informazioni? E chi
ha i mezzi è forse colpevole di acquistare quei beni, quelle cure, quegli
svaghi che consentono una vita più comoda, più sana e più lunga? E la nazioni
sono forse colpevoli di volere il benessere dei propri cittadini, di favorire
le proprie imprese, di aumentare la propria potenza, per poter garantire gli
uni e aiutare le altre?
4. Qui
la logica laica e secolare entra radicalmente in conflitto con quella religiosa
perché non può accettare quella parola che Giovanni Paolo II ha pronunciato
continuamente in questi anni: il peccato. Tutto il discorso di apertura del
Giubileo (25 agosto del 1999) è incentrato sulla constatazione che il dramma
della situazione contemporanea “dipende in gran parte dalla perdita del senso
del peccato”. Non ricorre mai la parola globalizzazione, ma l’analisi poggia sul tema cruciale della
valenza sociale del peccato. Anche se è sempre personale ed è radicato nella
sfera interiore di ognuno, il peccato produce un continuo peggioramento
dell’identità umana in cui si affievoliscono quei doni, che Dio ha attribuito a
ciascuno di noi, per consentirci di essere utili agli altri, contribuendo al
generale progresso spirituale. Il rapporto tra colpe personali e crisi sociale
è accentuato proprio dalla crescita delle opportunità e degli scambi perché
maggiori sono i rapporti e maggiori sono i filtri che si pongono tra gli uni e
gli: lo stato, il mercato, le organizzazioni internazionali... Maggiori sono i
filtri e minore è l’idea che vi sia un responsabile di un certo evento. Cresce,
quindi, l’indifferenza che alimenta la rassegnazione e la rassegnazione
impedisce di scorgere la soglia sottile in cui la possibilità del bene diviene
la realtà del male, producendo effetti devastanti sulle coscienze che appaiono
quasi incapaci di trovare alle proprie azioni un senso diverso dalla
soddisfazione del piacere e dalla massimizzazioni degli utili.
“L’interdipendenza dei sistemi sociali, economici e politici crea nel mondo di
oggi molteplici strutture di peccato”, perché moltiplica le occasioni e intanto
allarga gli effetti negativi del singolo comportamento: i deboli divengono
ancora più deboli, i forti ancora più forti, le ricchezze si concentrano, la
povertà si estende. Come nella parabola del ricco epulone, alla tragedia della
fame si contrappone l’ostentazione di un’abbondanza sperperata. “Se poi si
pensa alle strutture di peccato che frenano lo sviluppo dei popoli più
svantaggiati sotto il profilo economico e politico, verrebbe proprio da arrendersi
di fronte a un male morale che sembra ineluttabile” (§ 3).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 aveva
ribadito la natura personale del peccato,
sottolineando però quella tendenza alla proliferazione per cui il
peccato “trascina” il peccato fino a
rendere, in qualche modo, gli uomini complici gli uni degli altri nel
provocare l’origine “di situazioni sociali e di istituzioni contrarie alla
Bontà divina”. Si vengono, quindi, a determinare “strutture di peccato” che, pur essendo espressione di singoli
atti, moltiplicano le occasioni di commettere il male. “In un senso analogico,
esse costituiscono un peccato sociale” (§ 1869).
Questo tema
della “socialità” del peccato costituisce il nucleo della lettura teologica dei
problemi del nostro tempo condotta nella Sollecitudo rei socialis del
1987. Qui le “strutture di peccato” assumono una precisa identità:
l’imperialismo, che dividendo il mondo in blocchi ideologicamente contrapposti,
impedisce l’interdipendenza e la solidarietà; l’idolatria del denaro, della
classe, della tecnologia; la brama di profitto e la sete di potere. Insomma
siamo di fronte ad “assolutizzazioni di atteggiamenti umani” di cui sono
vittime non solo gli individui, ma anche le Nazioni e i gruppi politici,
economici, sociali. L’Enciclica muove dalla consapevolezza del fatto che
“peccato” e “strutture di peccato” non sono categorie applicate spesso alla
situazione del mondo contemporaneo. “Non si arriva, però, facilmente alla
comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza
dare un nome alla radice dei mali che l’affliggono” (§ 36). Non si può separare
la dimensione politica da quella antropologica. Ci possono essere scelte
economiche sbagliate, condizioni storiche
particolari, congiunture sociali inattese, che impediscono di individuare un
responsabile in senso stretto, tuttavia il male c’è e ha la sua origine nel
modo in cui l’uomo concepisce se stesso e i rapporti con gli altri. “Ho voluto
introdurre questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia il vero
tipo di male a cui ci si trova di fronte nella questione dello ‘sviluppo’ dei
popoli: si tratta di un male morale, frutto di molti peccati...” (§ 37). E’
impossibile pretendere di eliminarli se non cambiano radicalmente gli
atteggiamenti spirituali che “definiscono i rapporti di ogni uomo con se
stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con la
natura, in virtù di valori superiori come il bene comune...” (§ 38). Il bene
comune va inteso come il bene di tutti e di ciascuno perché “tutti siamo
veramente responsabili di tutti” (§ 38), siamo responsabili, come già aveva
ricordato la Populorum progressio, “di tutto l’uomo e di tutti gli
uomini”.
Proprio su indicazione di Giovanni Paolo II era
stato preparato dal Pontificio Consiglio “Cor Unum” il documento La fame nel
mondo. Una sfida per tutti: lo sviluppo solidale (4. ottobre. 1996), che
partiva dall’idea “che non si possano affrontare i settori economico, sociale e
politico prescindendo dalla dimensione trascendente dell'uomo” (§ 1). La fame
nel mondo è, dunque, un “male morale” che, al di là di tutte le cause fisiche,
strutturali e culturali, ci chiama inequivocabilmente a rispondere del nostro
tradimento verso Dio, che ha destinato i beni della terra alla comunione
universale perché “essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né
privilegiare nessuno” [16].
Alla luce delle finalità della creazione, non è possibile costruire il diritto
di proprietà in termini assoluti, tutelando solo il diritto individuale di godimento
senza considerare il rispetto della dignità
altrui e il dovere di perseguire il bene comune attraverso la promozione
di tutti. Il documento prosegue prendendo in esame, nel paragrafo 25, Le
costose deviazioni dal bene comune: le «strutture di peccato». Costose sta
a indicare la difficoltà, quasi “eroica”, nel rifiutare di cedere a quella
sottile perversione che “il denaro, il potere, la reputazione, perseguiti per
se stessi” hanno creato. Un “coacervo di luoghi e di circostanze” che diventa
estremamente difficile separare dalle strutture normali di funzionamento della
società in una sorta di sottile contagio per cui quello che potrebbe indurre al
bene diventa male, deviando dalla sua destinazione originaria per scopi
particolari e sterili. “Le ‘strutture
di peccato’ sono molteplici: alcune sono diffuse a livello mondiale — come per
esempio i meccanismi ed i comportamenti che generano la fame — altre sono su
scala molto più ridotta, ma provocano dissimmetrie tali da rendere molto più
difficile la pratica del bene. Queste ‘strutture’ determinano sempre costi
elevati in termini umani: sono luoghi di distruzione del bene comune”. Non sono
solo l’ignoranza e l’incompetenza a frenare lo sviluppo, ma anche la cupidigia,
l’orgoglio e la vanità che finiscono per accecare, rendendo ciascuno incapace
di comprendere appieno quanto siano limitate le sue percezioni e distruttive le
sue azioni. E’ per questo motivo, per l’impossibilità di distinguere le
“strutture del bene” dalle “strutture
del male”, che “il funzionamento dell'economia mondiale appare globalmente
mediocre — specie in rapporto ai risultati di punta che ottengono alcuni paesi
su periodi alquanto lunghi — ed estremamente costoso in termini umani (laddove
funziona e laddove non funziona), in quanto è profondamente minato dal costo
delle cattive abitudini, vera costrizione morale che grava sugli individui”.
Il documento vuole farci riflettere sul fatto che
denaro, potere e reputazione non sono mali in sé, lo diventano se non sono
messi al servizio: a) della costruzione della produzione di beni e
servizi di effettiva utilità sociale ed in grado di promuovere il bene comune; b)
della condivisione con i più svantaggiati delle risorse e delle opportunità.
“... non appena dei gruppi di persone riescono a lavorare di comune accordo
facendosi carico della collettività intera e di ogni singola persona, si
registrano progressi notevoli: persone fino a quel momento poco utili,
eccellono per la qualità dei loro servizi e gli esiti positivi modificano
progressivamente le condizioni materiali, psicologiche e morali della vita. Si
tratta in realtà degli ‘opposti’ delle ‘strutture di peccato’; le si potrebbero
definire ‘strutture del bene comune’, che preparano la ‘civiltà dell'amore’ ”.
5. Il
tema delle “strutture di peccato” ci pone, dunque, di fronte a uno degli
elementi più rilevanti dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, che caratterizza
i suoi scritti e anima le rivendicazioni più immediatamente politiche e sociali
del suo pontificato: dalla richiesta dell’abbattimento del debito pubblico dei
paesi del terzo mondo alla condanna della guerra, dal rifiuto della pena di
morte alla preoccupazione per la manipolazione tecnologica della vita. Vi viene
espressa una chiara visione del Cristianesimo e una ben precisa lettura del
nostro tempo. Sotto il primo punto di vista “il Cristianesimo non è soltanto
una religione della conoscenza, della contemplazione. E’ una religione
dell’azione di Dio e dell’azione dell’uomo”[17].
Sotto il secondo punto di vista, la nostra è una civiltà che ha enormi
potenzialità e ha conseguito indubbi successi in molti campi, ha però commesso
una grande quantità di errori ed abusi, rivestendoli di una struttura
filosofica e politica che corre il rischio di smarrire il senso dell’identità
umana. E’ avvenuto con la protesta di fronte all’ingiustizia, espressa dal
comunismo, che ha finito per determinare un apparato di violenza e di
emarginazione: una medicina “più pericolosa e, all’atto pratico, più dannosa,
della malattia stessa. La stessa cosa sta avvenendo con il capitalismo, il
consumismo, il relativismo con tutte quelle manifestazioni in cui l’uomo,
assolutizzando se stesso, finisce per smarrire l’altro, perché ha smarrito
Dio.
Possiamo veramente pensare che, se Dio ci guardasse
e vedesse morire di paludismo quei bambini che potrebbero essere curati con
molto meno di quello che spendiamo in diete, in palestre, in centri di
bellezza, non dovrebbe chiederci conto del nostro operato? Il problema è che, “etsi deus non daretur”,
è facile cadere nella tentazione del solipsimo, nell’acquietante e razionale
giustificazione per cui individualmente
non sono responsabile della sorte del mondo. Non dipende da me la distribuzione
delle risorse e neppure il funzionamento del mercato o la cura delle malattie. L’individualismo
diventa il peccato del solipsismo, quando ci mette al riparo da qualsiasi
responsabilità per cui i mali peggiori possono avvenire davanti ai nostri occhi senza turbare la nostra
serenità[18]. La mia
possibilità di bene si sottomette all’accettazione del male tutte le volte in
cui mi tiro da parte nella convinzione che, qualsiasi cosa avvenga, non potrei
fare nulla per evitarla. Giovanni Paolo II
chiama, tutto questo, “peccato”;
la teoria politica self interest.
Il condizionamento del self interest spiega
il motivo per cui la teoria politica abbia, in questi anni, accentuato due
dimensione della libertà: la libertà da, l’indipendenza politica e
sociale da ogni condizionamento esteriore, e la libertà di, l’effettiva
capacità di scegliere, ottenendo i necessari mezzi economici e culturali,
trascurando la libertà per, il modo in cui utilizzo le mie capacità per
il bene comune. Anche l’indifferenza, anche la pigrizia, anche il rifiuto di
ascoltare sono una colpa, perché sono responsabile non solo del male che
arreco, ma anche della sofferenza che potrei alleviare. La libertà per
presuppone la libertà da e la libertà di, ma ne allarga la
valenza antropologica, mostrando come sia vano costruire una società
democratica in cui “pensiamo tutti e pensiamo assieme” (libertà da e la libertà
di) se non siamo anche in grado di “pensare a tutti” (libertà per).
Il peccato richiama proprio la centralità della libertà per come
coronamento della libertà di e della libertà da, perché sono
libero, ma non sono solo. Non diminuisce, dunque, la libertà personale, ma
l’accresce con la responsabilità personale.
La Lettera apostolica Salvifici doloris sul
senso cristiano della sofferenza (Lourdes, 11 febbraio dell'anno 1984)
ci ricorda che siamo tutti chiamati a scrivere una pagina del Vangelo. “I1
Vangelo della sofferenza viene scritto incessantemente, ed incessantemente
parla con le parole di questo strano paradosso: le sorgenti della forza divina
sgorgano proprio in mezzo all'umana debolezza. Coloro che partecipano alle
sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima particella
dell'infinito tesoro della redenzione del mondo, e possono condividere
questo tesoro con gli altri. Quanto più l'uomo è minacciato dal peccato, quanto
più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d'oggi,
tanto più grande è l'eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede”.
Per questo motivo, Giovanni Paolo II ci chiama a
rendere conto del nostro operato dinanzi alle “immense moltitudini di affamati,
mendicanti, di senza tetto, senza assistenza medica e, sopratutto, senza
speranza di un futuro migliore” (Sollecitudo rei socialis § 42).
Possiamo ignorare tutto ciò e, intanto, proclamare la priorità dell’opzione per
i poveri che sta alla base dell’insegnamento cristiano? Questa priorità non
deriva dal self interest, dal calcolo razionale per cui è sempre meglio
vivere in una società che tutela i meno avvantaggiati perché non si sa mai, non
so cosa mi potrà riservare la lotteria naturale. Deriva dalla semplice e
radicale constatazione che i beni di questo mondo sono stati originariamente
destinati da Dio a tutti. “Etsi Deus non daretur”: se tolgo Dio da questo
assunto, è impossibile lasciare il “tutti”, evitando la sopraffazione e
l’emarginazione. Se cancelliamo il Dio che dà a tutti, resta l’io che prende
solo per sé. Giovanni Paolo II evoca questo progressivo allontanamento di Dio
e, attraverso l’analisi delle strutture di peccato, ne esamina i riflessi diretti e indiretti, personali e sociali.
La cultura laica lascia tutto ciò senza nome e senza causa, offrendo una comoda
protezione alle nostre coscienze che possono così assistere ai mali peggiori,
rimanendo in perfetta tranquillità: l’economia e la politica sono un gioco a
“somma zero”: se qualcuno vince, qualche altro deve perdere. Non può che
perdere, non c’é rimedio: sono le vittime necessarie delle regole del gioco.
Di fronte a questa ineluttabilità della prassi che,
anziché liberare l’uomo, lo abbandona alle pieghe della storia, va rivendicato
il ruolo centrale della teologia politica come “teologia pratica” che ispira e
orienta l’azione. Il messaggio escatologico cristiano diventa la chiave critica
di lettura del nostro tempo. Nessuna contrapposizione, dunque, con la “ragione
critica” sviluppata dall’Illuminismo proprio perché non limita il tema politico
al problema della legittimazione del potere, ma “lo riferisce sempre nuovamente
– in vista della trasformazione e del progresso delle costituzioni politiche
stesse- alla storia sociale della libertà...” [19].
La teologia non sceglie governi e governanti, ma sottolinea come la libertà non
sia solitudine, ma ricerca dell’altro e responsabilità verso l’altro: una domanda di giustizia che mette
continuamente in discussione il nostro essere nel mondo, ci interroga su quelle
colpe nascoste anche dietro strutture, che non abbiamo creato, ma in cui
viviamo, da cui traiamo tutti i vantaggi, finendo per accettarne la logica e
per giustificarle. Sono queste le “strutture di peccato” che segnano la crisi
della globalizzazione: se non riusciamo a vederle è proprio perché ormai la
vita sociale e la vita politica sono diventate un “incrocio senza incrocio” da
cui si alimenta, giorno per giorno, telegiornale per telegiornale, la nostra
illusione che vi siano vittime senza carnefici.
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© THÈMES III/2005
[1] Prendo a modello uno dei tanti saggi G. E. Rusconi su questo argomento (Laici e cattolici oggi, in “Il Mulino, 2000-2002).
[2] Secondo la lettura di Flores d’Arcais, Aut fides aut ratio, in “Micromega”, 1998-5.
[3] J. Pieper, La giustizia, tr. it., Brescia, Morcelliana - Massimo, 2000, pp. 85-86.
[4] F. D’Agostino, Filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1996, p. 3 e Id., Diritto e giustizia, San Paolo, Brescia, 2000, cap. I.
[5] "Affinché esista una relazione di giustizia è necessario che i soggetti siano in debito. Non ci riferiamo, in questo caso, alle differenze o alle disuguaglianze sociali che indubbiamente possono esistere, ma a quel tipo di uguaglianza che permette di soddisfare il debito" osserva J. Hervada, Introduzione critica al diritto naturale, tr. it. Milano, Giuffrè, 1990, p. 40.
[6] E. Scalfari, Perché non possiamo non dirci laici, in Dibattito sul laicismo, a cura di E. Scalfari, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2005, p. 15.
[7] “La dimensione umana del politico è quella del relazionale, di questa intersoggettività che il realismo aristotelico e tomistico ha trasmesso alla cultura occidentale prima che essa fosse vittima del razionalismo (...) che, emancipato dal rapporto con l’altro, ha preparato il nichilismo e il formalismo contemporaneo” (J. M. Trigeaud, Elementi di filosofia politica, tr. it. L’Aquila- Roma. Japadre, 1992, p. 353).
[8] Secondo la felice sintesi di J. Habermas, Solidarietà tra estranei, tr. it., Milano, Guerini e Associati, 1997.
[9] J. P. Sartre, L’essere e il nulla, tr.it. , Milano, Il Saggiatore, 1997, p. 287.
[10] R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, tr. it. in R. Rorty, G. Vattimo, Il futuro della religione, Milano, Garzanti, 2005, p. 45.
[11] K. Lüdersen, Il declino del diritto penale, tr. it. Milano, Giuffrè, 2005, p. 50.
[12] P. Flores d’Arcais, Dio esiste?, in « Micromega », 2000-2, p. 40.
[13] G. Vattimo, Dopo la cristianità per un cristianesimo non religioso, Milano, Garzanti, 2002.
[14] J. L. Nancy, Essere singolare plurale, tr. it., Torino, Einaudi, 2001, p. 127.
[15] A. Schlesinger jr. sintetizzava così, non senza ironia, i facili ottimismi dei teorici della fine della storia (La democrazia. Colloquio di Paolo Mastrilli con Arthur Schlesinger, Roma, Biblioteca di Liberal, 1999, p, 8.
[16] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Centesimus annus (1991), § 31.
[17] Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, Milano, Mondadori, 1994, p. 143.
[18] Penso alle belle pagine di Th. Merton, Diario di un testimone colpevole, tr. it., Milano, Garzanti, 1992, p. 208.
[19] J.B. Metz, Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997, tr. it., Brescia, Queriniana, 1998, p. 42.